Partecipazione e sindrome dell’ultima spiaggia

“Renzi è l’ultima speranza, dopo di lui il caos”. “La Raggi (M5S) la voto, è l’ultimo barlume di onestà. E non fa nulla se non è esperta, ed ogni tanto dice delle scemenze. Gli altri sono tutti ladri!”. “Voto Sinistra Italiana, perché è l’ultima bandiera di una certa sinistra”. “Perso per perso, voto Salvini, chi se ne frega. Tanto siamo alla fine della politica”. “Voto Meloni, perché è l’ultima persona di destra seria. Ed anche perché quando c’era Mussolini potevi tenere la porta di casa aperta e i treni arrivavano in orario”.

È questo che, spesso, si sente per strada quando qualcuno accenna a parlare di politica. Le persone, forse perché si sentono chiuse all’angolo, sembrano attanagliate dalla “sindrome dell’ultima spiaggia”, e poco importa delle castronerie dette, dell’ignoranza diffusa e di populismo in quantità industriale profuso da aspiranti amministratori. È vero; siamo nel momento peggiore per la credibilità della politica italiana, che, per arrivare a questo punto, ci ha messo del suo.

Però, purtroppo, al netto del prevedibile astensionismo che potrebbe caratterizzare la prossima tornata elettorale, ci si sta abbandonando, ancora una volta, ad un “eccesso di delega”. Ad una fiducia cieca verso un vuoto nuovismo, facendosi abbagliare da facili ed immediati slogan populistici, i quali sortiscono un effetto migliore se individuano un nemico (Rom, tanto per dirne una). Sul primo numero dell’“Uomo Qualunque”, uscito il 27 dicembre del 1944, il populista Giannini titolava:”Abbasso tutti!”. Ancora oggi è uno slogan molto gettonato.

Il fatto è che, forse credenti ancora alla famosa teoria dell’uomo solo al comando, si pensa che ci sia chi possa da solo risolvere tutti i problemi. Quando venivano tempi cupi, i contadini, dopo analisi semplici, ma non per forza semplicistiche, solevano dire: “Aiutati che dio ti aiuta”. Ovvero, come direbbe Marco Pannella: “Occupatene, invece di preoccuparti”.

È, in fondo, la parafrasi della partecipazione e della responsabilità personale. Perché il governo di un Paese democratico non si risolve solo con la rappresentanza, ma anche, e forse soprattutto, con la presenza cosciente nel merito del dibattito. Sciascia diceva che “questa Repubblica rappresentata dalla Costituzione deve essere prima di tutto difesa dal modo in cui finora è stata gestita”. Difficile dargli torto, vista la situazione in cui versiamo.

Però, ammonisce Valter Vecellio, “è sempre più necessaria una volontà di opporsi alla mentalità manichea della religione di salvezza universale che si contrabbanda di sapere scientifico”. Vecellio scriveva questo non a commento di un discorso di Grillo, ma in un articolo del 1976. Le “religioni di salvezza universale” servono a chi pensa, in fondo, di non avere un’alternativa; di essere “all’ultima spiaggia”. Ma non esiste alcun processo alternativo che non trovi le sue radici nel tessuto sociale del Paese; che deve, per tale motivo, essere fecondo di idee, partecipazione, confronto, dibattito e dubbio. Il semplicismo e la sciatteria (vere o presunte) dei partiti non nascono dal nulla. Onestamente, che da domani un parlamentare guadagni “x” euro in meno al mese, mi interesserebbe molto poco, perché poco cambierebbe. Come direbbe Carlo Rosselli, abbiamo cambiato una “cosa” ma non le “coscienze”. La crisi della politica è, prima di tutto crisi di partecipazione; e non parlo solo di numeri, perché “il numero non sempre fa la forza. A volte fa il gregge”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:05