Global Peace Index,  l’intervista a Terzi

Il Rapporto 2016 “Global Peace Index” rileva che il 2015 è stato un anno dai risultati non positivi per la pace e la sicurezza internazionale. Il rapporto rileva che l’impatto economico della violenza sull’economia globale è stato di 13,6 miliardi di dollari nel solo 2015. Per comprendere al meglio la realtà transnazionale, interpelliamo l’Ambasciatore, già ministro degli Esteri, Giulio Terzi, Presidente del “Global Committee for the Rule of Law” dedicato a Marco Pannella.

Nel 2015, secondo il Rapporto “Global Peace Index”, sono state spesi 13,6 miliardi di dollari in sicurezza e armamenti, il 13,3 per cento del Pil mondiale. Invece, le spese di mantenimento della pace, attraverso le Nazioni Unite, sono state pari a solo l’1,1 per cento dei circa 742 miliardi di dollari di perdite economiche di un conflitto armato. Come modificare tale tendenza?

Il rapporto ha un considerevole interesse non soltanto per aver quantificato – con effetto mediatico – l’impatto macro-economico dei conflitti, con una perdita equivalente quasi all’intero Pil annuale dell’Unione europea. Lo studio pone l’accento sulla necessità di ri- orientare e dotare di ben maggiori risorse la prevenzione dei conflitti. Se si pensa che nell’intero bilancio delle Nazioni Unite solo il 3 per cento dei finanziamenti complessivi viene destinato a programmi per la tutela e la promozione dello Stato di Diritto, dei Diritti Umani e delle Libertà fondamentali, che costituiscono l’area prioritaria per prevenire conflitti tra gli Stati e all’interno degli Stati, risulta evidente come la Comunità internazionale ignori quasi completamente la prevenzione; per poi doversi concentrare invece sullo spegnimento di incendi, dove è spesso inevitabile l’impiego della forza, l’utilizzo di strumenti militari e il rischio di ulteriori propagazioni della violenza. Ciò non significa che le operazioni di pace dell’Onu, pur costando una cifra ingente, pari a 8 miliardi di dollari, rispondano in misura adeguata all’esigenza di tamponare conflitti regionali e situazioni di crisi. Se il peacekeeping Onu fosse più incisivo e non si limitasse soltanto a riflettere equilibri contrapposti tra i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, una parte considerevole di quella enorme cifra stimata dal rapporto, di 742 miliardi di danni causati da conflitti armati, potrebbe essere considerevolmente ridotta.

Fondamentale per il futuro dell’umanità all’insegna della pace è un maggiore investimento nella costruzione e nel mantenimento della cooperazione umanitaria. Le operazioni di pace sono misure volte a rispondere ad un conflitto e una carenza di investimenti nelle attività di costruzione della pace dimostra che la comunità internazionale sta spendendo troppo nel generare conflitti e troppo poco in azioni per il mantenimento di tregue. Che azione può svolgere la comunità diplomatica nel tentativo di invertire tale tendenza?

In generale, si deve constatare che la gestione delle crisi in questi ultimi 5 anni caratterizzati dal post “Primavere Arabe”, dal riacutizzarsi della competizione Est-Ovest con toni da Guerra Fredda, dalla frammentazione politica tra Paesi occidentali, dall’insofferenza delle opinioni pubbliche nei confronti di malaffare e mal governo, abbia trascurato e, sotto diversi profili, fatto arretrare le strategie di “soft power” e la realistica affermazione di comuni principi e interessi dell’Unione europea e della Comunità Atlantica. Si avverte un ripiegamento, in Europa, su misure emergenziali e contingenti: con risposte di breve termine a sfide epocali, come migrazioni e terrorismo; con “appeasement” verso politiche del fatto compiuto; con acquiescenze supine ad un arbitrario impiego della forza. È mancato il quotidiano impegno politico nell’esigere in ogni possibile sede multilaterale e bilaterale il rispetto dello Stato di Diritto e della legalità. Così come sono stati assenti messaggi precisi : sull’affermazione che tutti gli Stati Membri dell’Unione europea e l’Unione stessa devono riservare all’attuazione scrupolosa di trattati, convenzioni, intese ratificate dai Paesi delle Nazioni Unite. Abbiamo invece troppe volte assistito alla dimostrazione che l’articolo 2 del Trattato di Lisbona sulla promozione dello Stato di Diritto e dei Diritti Umani viene completamente ignorato. Nella illusione di alcuni Governi europei e delle Istituzioni Comunitarie di poter concludere imprudenti affari con Paesi che pur avendo ratificato le principali convenzioni sui Diritti dell’Uomo sembrano oggi non voler più sentirne parlare.

In una recente conferenza, svoltasi alla Biblioteca del Senato, sul conflitto del Nagorno-Karabakh ha evidenziato di come “il diritto alla conoscenza”, possa essere utile per comprendere le responsabilità e le problematiche legate a tale conflitto. La creazione di situazioni di confronto e di dialogo sull’essenzialità del “diritto alla conoscenza nei conflitti” potrebbe rappresentare uno strumento politico di argine ai risultati negativi ben descritti dal Global Peace Index?

Le crisi provocate da terrorismo, repressioni, ricorso alla forza per affermare spazi di influenza, stanno scardinando una legalità faticosamente costruita nel tempo e hanno marcato il presente decennio. I massacri avvenuti durante le Primavere Arabe proseguono in una guerra civile che ormai molti considerano una “pulizia etnica” degli oppositori sunniti di Assad. La minaccia terroristica dello Stato Islamico in Medio Oriente e in Libia, le destabilizzazioni provocate da Stati falliti dimostrano che conflitti e violenze sempre più colpiscono le popolazioni civili e le loro componenti più deboli: bambini, donne, minoranze etniche e religiose. È nelle fasi critiche della transizione che le Istituzioni devono consolidarsi attraverso il “Diritto alla Conoscenza”. Su di esso è basata la Giustizia Transizionale: dimensione che ha impegnato e continuerà a impegnare la dottrina giuridica, la diplomazia, le organizzazioni multilaterali; se ne devono cogliere la rilevanza politica, le ulteriori potenzialità e gli interrogativi irrisolti. La premessa ineludibile è il radicarsi a livello globale del “Diritto alla Conoscenza”. Ciò vale, come ho avuto modo di osservare alla Conferenza svoltasi alla biblioteca del Senato, per i crimini commessi durante il conflitto in Nagorno-Karabakh. Ma lo esemplifica anche la storia della Truth and Reconciliation Commission‎ Sud Africana che ha discusso una miriade di casi per amnistiare quanti contribuissero al pieno accertamento della Verità, rendendo giustizia alle vittime. Da anni interferenze politiche bloccavano indagini e condanne. Ci sono voluti 33 anni perché sulla orribile morte di una giovanissima attivista anti-Apartheid, Nokuthula Simelane, si potesse finalmente fare giustizia e tradurre i carnefici dinanzi a un tribunale Sudafricano. Ci sono voluti 23 anni per portare Hissène Habrè, accusato di numerosi crimini contro l’umanità, dinanzi‎ alle Camere Straordinarie Africane. Un processo che, dopo quelli avviati contro Milosevic, Charles Taylor, il presidente Sudanese al-Bashir, quello del Kenya Uhuru Kenyatta e altri indiziati africani, è stato considerato di grande importanza per la credibilità del sistema di giustizia internazionale. La condanna di Habrè ristabilisce due principi: il primo, che i capi di Stato Africani possono essere chiamati a rispondere di crimini contro l’umanità da istanze sovrannazionali poste anche al di fuori del proprio Paese; il secondo, che esiste sempre una giurisdizione competente a stabilire la Verità e la Giustizia. Questi precedenti sono di fondamentale importanza per l’affermazione dello Stato di Diritto e del Diritto alla Conoscenza. Per i crimini commessi in Nagorno- Karabakh con il massacro di Khojaly l’accertamento delle responsabilità è ancora incompiuto. Dobbiamo evitare che ciò abbia a ripetersi per analoghi e assai più estesi crimini in Siria. Nessuna impunità può essere tollerata per i massacri di civili, per gli ospedali e le scuole bombardate ad Aleppo, per le torture ed eliminazioni di massa documentate da Cesar e pubblicate da Human Rights Watch. L’occultamento della verità su Khojaly dimostra le gravi carenze della comunità internazionale nel sanzionare individui, organizzazioni, gruppi, governi, spesso coinvolti in “proxy wars”, attraverso fazioni sostenute da potenti alleati esterni; in pulizie etniche all’insegna della “guerra al terrore”; con bombardamenti di intere città nel palese scopo di creare milioni di rifugiati per destabilizzare Paesi della Nato e dell’Unione europea. Un vero radicamento del Diritto alla Conoscenza nella comunità internazionale rappresenta la scelta vincente, e può così contribuire a prevenire anche gli enormi danni economici stigmatizzati dal Rapporto “Global Peace Index”.

Quali sono le azioni contemporanee del “Global Committee for the Rule of Law- Marco Pannella” nel progetto transnazionale di affermazione dello stato di Diritto in contrasto alle ragioni di stato?

Che Stato di diritto e Diritti Umani siano minacciati, e lo siano in una sorta di inversione di tendenza rispetto all’inizio di questo XXI secolo, è sotto gli occhi di tutti noi; ben pochi lo negano. L’inversione di tendenza è generalizzata. Riguarda la Comunità internazionale: le Nazioni Unite riservano un mero 3% dei propri fondi a programmi e iniziative destinati alla tutela e promozione dei Diritti Umani e dello Stato di Diritto. L’inversione di tendenza riguarda l’Europa: con violazioni perpetrate da Stati che usano la forza militare per annettere parti di Stati sovrani, con il pretesto di proteggere minoranze che sarebbero invece tutelabili perfettamente attraverso i rodati ed efficaci strumenti giuridici di cui l’Europa dispone; riguarda l’Europa anche per le vicende delle migrazioni, della lotta alla povertà, della giustizia; e riguarda l’Italia, nel diniego del giusto processo, nell’abuso della prescrizione, nella situazione delle carceri, nel mancato recepimento di sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nel degrado della libertà d’informazione che condiziona la politica e le libertà fondamentali nel nostro Paese. La campagna per lo Stato di Diritto e per i Diritti Umani può e deve essere globale; ma a condizione di essere al tempo stesso nazionale. Non si tratta di impegni diversi. Non possono esserci compartimenti stagni tra il “nazionale” e il “trasnazionale” quando si affermano diritti e libertà che o sono universali ed esistono solo in quanto universali, o non sono. La pulizia va fatta in casa nostra così come in strada. La visione che ha guidato Marco e gli amici radicali a rilanciare con vigore il principio dello Stato del Diritto e del Diritto alla conoscenza sul piano universale, ci ha consentito di precisare il percorso del Global Committee. Lo abbiamo fatto con Matteo Angioli, Elisabetta Zamparutti, Laura Hart a Ginevra al Palais des Nations, a Sofia alla convention della World League for Freedom and Democracy insieme a Matteo. Ho continuato a parlarne a Parigi a un convegno con Kofi Annan, Komorowski, e Jack Straw. Proseguiremo il 9 luglio a Parigi, insieme a Matteo, Laura, Elisabetta, Sergio D’Elia e Maurizio Turco, con diversi incontri bilaterali a margine della Convention dell’opposizione iraniana. Abbiamo constatato molto interesse anche negli incontri delle ultime settimane a Roma con personalità delle Nazioni Unite, del mondo politico e accademico francese, britannico, polacco, bulgaro, macedone e kosovaro. L’interesse nasce dalla constatazione condivisa da tutti i nostri interlocutori che stia arretrando e indebolendosi l’intero “acquis” di Trattati, dichiarazioni, iniziative che all’inizio degli anni 2000 e dalla dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite in poi avevano riconosciuto Diritti Umani e Stato di Diritto quali pilastri essenziali per pace, sviluppo e democrazia. Solo pochi giorni fa in un lungo editoriale l’Economist ha scritto che la libertà di parola e di espressione è “sotto attacco” in tutto il mondo. Un fatto innegabile che dovrebbe ancor più motivare i sostenitori della campagna lanciata da Marco Pannella per l’affermazione dello Stato di Diritto e del “Diritto alla conoscenza”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56