Se il capitalismo si scopre malato

“Una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze sono una prova”. Nell’analisi dell’odierno capitalismo qualcosa non va. Prima Marina Berlusconi ha parlato, nella sua lettera di mezz’estate al “Corsera”, di capitalismo cannibalesco da combattere. Poi Sergio Marchionne, davanti a una platea agostana di vincitori del concorso indetto dalla Luiss sul trading finanziario, ha detto senza mezzi termini che i mercati, non avendo morale, non distinguono il giusto e quindi non possono regolare una società equa e ha aggiunto che il profitto oltre un certo limite diventa avidità.

Oggi Carlo De Benedetti recita il mea culpa. In un’intervista rilasciata ieri l’altro al Corriere della Sera l’ingegnere ammette che la globalizzazione di cui tutti, lui compreso, erano inizialmente entusiasti “ha creato una deflazione che ha ridotto i salari della media di tutti i lavoratori del mondo, e ha accresciuto le ingiustizie sociali sino a renderle insopportabili”. Se i campioni dell’odierno capitalismo riconoscono che si è sbagliato strada, qualcosa vorrà pur dire. De Benedetti va oltre, ponendo esplicitamente in relazione il processo di distruzione della classe media, innescato dalla crisi economica globale, che peraltro potrebbe conoscere a breve un nuovo picco, con la crisi della democrazia. Conseguenza inevitabile sarebbe l’insorgere di un’ondata di totalitarismi in giro per il mondo, con tutto ciò che ne consegue in termini di nuove, e più devastanti, conflittualità tra Stati.

È uno scenario da brividi al quale non si può rispondere con l’austerità sui conti pubblici imposta, ad esempio, dall’Unione europea a trazione germanica. Per non parlare delle non-politiche economiche praticate, in Italia, dal Governo Renzi la cui stella polare è quella del galleggiamento per la sopravvivenza di se stesso alla guida di un Paese che si sta perdendo. Questo il problema, ma la soluzione? Se non si vuole dare credito ai populismi occorre ripensare i modelli macroeconomici verso i quali orientare lo sviluppo globale. La riflessione deve focalizzarsi sui nervi scoperti della mondializzazione, a partire dalla tanto osannata rincorsa all’innovazione tecnologica. Se il dogma è l’aumento ad libitum dell’automazione dei processi produttivi sarà giusto interrogarsi sulle sorti dei milioni di posti di lavoro che verranno sacrificati? O pensiamo ancora che l’argomento sia tabù? Una società globale cha fa sempre più a meno del lavoro umano sarà pure, in prospettiva, il paradiso terrestre descritto dalle Scritture, ma, nel frattempo, rischia di somigliare a un inferno lastricato di buone intenzioni.

Una volta, a ridurre il peso sociale della sovrappopolazione, ci pensavano le guerre e le epidemie. Oggi che di guerre se ne combattono meno e la ricerca scientifica impedisce che la diffusione di pandemie possa dare una seria sfoltita ai numeri della razza umana, l’intero peso dell’assistenza agli inoccupati e a coloro che perdono il lavoro è tutto sulle spalle del welfare sostenuto dagli Stati nazionali. Ma quanto potrà durare? Un’equa distribuzione della ricchezza prodotta basterà a preservare gli equilibri all’interno delle comunità umane? Metterci, nei bilanci pubblici, ogni tanto un po’ di soldi da distribuire a pioggia, finisce per non accontentare nessuno e per fare arrabbiare tutti: quelli che producono e quelli che stanno a casa, loro malgrado, a girarsi i pollici.

Se questo era il mondo migliore a cui aspiravano i nostri padri non si può dire che sia riuscito granché. Ora, coloro che hanno astutamente cavalcato la tigre dell’ultimo capitalismo finanziario si trovano a un bivio e, presto o tardi, dovranno scegliere che strada imboccare: proseguire sulla medesima china puntando a spremere utili fin quando il sistema non collasserà o farsi coraggiosamente carico di ripensare il mercato in uno spirito totalmente diverso da quello attuale. Anche a prezzo di sacrificare una parte dei propri castelli di carta? Se dipendesse da noi...

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:01