Amnistia, tra marcia e referendum

Il 6 marzo del 1992 il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 ha fatto sì che questi provvedimenti di clemenza oggi possano essere concessi solo con una legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera in ogni articolo e nella votazione finale.

Prima del 1992 sono stati concessi ben ventinove provvedimenti di amnistia e indulto. Dopo soltanto uno: il famoso indulto (senza amnistia) del 2006. L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di “Mani Pulite” per evitare il ripetersi di amnistie “concesse a cuor leggero”. Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza, dotata di un’autonomia riflessiva tutta da verificare, esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi ha portato a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale è continuato a crescere insieme a una forte domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare ha condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento ed i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta.

Il 4 dicembre si voterà il referendum costituzionale. Un referendum senza quorum, ma con caratteristiche particolari, tra cui quella dell’impossibilità di votare i singoli provvedimenti di modifica. Uno di questi riguarda proprio l’articolo 79 della Costituzione. Se dovesse vincere il “Sì”, i provvedimenti di amnistia, sempre con una maggioranza di due terzi, sarebbero di competenza della sola Camera dei deputati, facilitando non poco la realizzazione della clemenza, da tanti invocata ma da pochi perseguita. Una scelta non facile, ma che dovrebbe far riflettere i promotori della marcia del 6 novembre per l’amnistia in nome di Marco Pannella e di Papa Francesco. Il Partito Radicale è alla sua quarta marcia per l’amnistia e si trova di fronte alla maturazione di un’iniziativa nonviolenta che pone numerosi interrogativi, tra cui quello di far comprendere all’opinione pubblica la difficile situazione creatasi nel Paese in seguito all’evoluzione dello Stato Penale nel nostro ordinamento.

La dovuta riflessione sul referendum non deve portare necessariamente a una presa di posizione favorevole al “Sì” in nome dell’amnistia, ma a risolvere una contraddizione che potrebbe esplodere nelle mani dei promotori dopo l’esito referendario, al di là di come sarà il risultato. Anche il “No” avrebbe dignità di elaborazione politica, così come il non-voto, cui personalmente aderirò. Servirebbe, però, ad evitare una contraddizione successiva che farebbe cadere l’iniziativa pro-amnistia per la Repubblica in una sorta di anomia procedurale priva di sbocchi, privando i promotori degli equilibri politici di relazione necessari al conseguimento del provvedimento di clemenza in sede parlamentare: qualunque sia l’esito del referendum del 4 dicembre.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58