Renzi da Vespa riscrive la Storia

Matteo Renzi è andato a ”Porta a Porta” da Bruno Vespa. Ha parlato di immigrati, ma lo ha fatto a modo suo: autoassolvendosi. A Renzi non basta avere ragione, occorre che anche la Storia coincida con la narrazione sull’ineluttabilità della sua ascesa al potere. Come a dire: “Non sono qui per un caso, ma per un destino”. Per giustificare il business dell’accoglienza dei clandestini il premier torna indietro nel tempo, fino a quella maledetta primavera del 2011 quando la coalizione occidentale decise di staccare la spina al satrapo Gheddafi. “Quella guerra fu un errore”, sentenzia Renzi. E aggiunge: fu colpa del Governo guidato da Silvio Berlusconi. E di nessun altro. Ma come di nessun altro?

Perfino il solitamente accomodante Bruno Vespa gli fa notare che la scelta di trascinare il nostro Paese a combattere l’“alleato” Gheddafi fu presa dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la contrarietà di Berlusconi. Vespa racconta di essere stato testimone della drammatica riunione al teatro dell’Opera di Roma, il 17 marzo 2011. Il Presidente della Repubblica aveva assicurato agli alleati la partecipazione italiana alla missione militare e pretendeva che Governo e Parlamento lo appoggiassero. In quell’occasione, commenta lapidario Vespa, Berlusconi fu messo sotto da Napolitano. Ma Renzi non ci sta a sentir dire cose che contraddicono la sua “verità” e ribatte: Berlusconi era il presidente del Consiglio, quindi toccava a lui decidere e non può prendersela con nessuno, non può dire: è stata colpa di quello o di quell’altro. Per quanto sia duro ammetterlo, Renzi il cinico tocca un nervo scoperto. Berlusconi mancò, nelle ore decisive, della sufficiente forza per rovesciare il tavolo e minacciare. Sì, minacciare tutti: i capi di governi alleati che lo pugnalavano alle spalle e i vertici delle istituzioni italiane che gli scavavano la fossa sotto i piedi. Purtroppo non è andata così e ne scontiamo ancora oggi lo conseguenze. Ma sentire Renzi assolvere quelli della sua parte politica è troppo. Non ci siamo rincitrulliti al punto da dimenticare l’atmosfera dei primi del 2011: l’alba di quella follia chiamata “primavera araba”. Non passava giorno che la combriccola degli “indignati” del Partito Democratico non attaccasse Berlusconi per le sue presunte amicizie pericolose con satrapi e piccoli tiranni. Lo hanno sbeffeggiato e sputtanato in tutti i modi possibili.

Per il circo mediatico, che funzionò da quinta colonna degli interessi stranieri nel condizionare la posizione italiana, frequentare un tiranno faceva di Berlusconi stesso un tiranno da abbattere. In quel momento la stella di Barack Obama era in ascesa e Berlusconi rappresentava il passato da spazzare via. Non abbiamo dimenticato quando a sinistra a gran voce, con qualche sussurro interessato anche dalle parti del centrodestra, si diceva: “Meno male che c’è Napolitano”. Altro che libertà per la Libia! Era il petrolio il boccone ghiotto a cui ambivano il francese Nicolas Sarkozy e il britannico David Cameron. I due brigarono con la signora Hillary Clinton, la stessa gentildonna che Renzi e compagni non vedono l’ora di festeggiare come nuova inquilina della Casa Bianca, per fottere l’Italia eliminando Gheddafi. E ci sono riusciti: la destabilizzazione libica ha prodotto, a cascata, l’emarginazione italiana nelle partite aperte sullo scacchiere europeo e mediterraneo.

Ma questo Renzi non lo dice. Meglio tacere sul punto e limitarsi a enfatizzare il dato oggettivo: fu Berlusconi a dare l’ordine di partecipare alla coalizione occidentale contro Gheddafi. È drammaticamente vero: fu, per il leone di Arcore, l’unico, grande errore di una storia politica altrimenti costellata di geniali intuizioni. Per tutto c’è un prezzo, anche per la sconfitta. Ascoltare uno spudorato giovanotto che ribalta la verità storica pur di compiacere amici nostrani e protettori stranieri è parte di quel prezzo da pagare. Fino a quando?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:00