Il finto ritiro di Renzi

Che Matteo Renzi non si ritirasse dalla politica attiva, pur avendo perso rovinosamente la battaglia referendaria, era cosa prevedibile. Almeno per quelle che sono le abitudini dei politici italiani, poco inclini ad abbandonare il campo nonostante le sconfitte.

Altro giro altra corsa per il segretario del Partito Democratico, il quale riparte proprio da quella seconda carica da cui non si è mai voluto separare ai tempi di Palazzo Chigi: ovvero, la segreteria del Pd. Ora bisognerà verificare se la tattica scelta sia la migliore per ritornare alla guida del Paese. Perché, fino ad ora, solo di “problemi tattici” possiamo parlare, visto che, a quanto pare, il dibattito interno sulle cause della sconfitta sia piuttosto asfittico.

Lo stesso dialogante Gianni Cuperlo ha affermato che, senza un congresso chiarificatore, il Pd rischia effettivamente l’esplosione. Anche perché è in quella assise che si determinano i vincitori e i vinti. Facendo sintesi di un dibattito, il quale, rimanendo altrimenti sempre impallato tra le dichiarazioni, più o meno bellicose, che si fanno ai giornali, non assume alcuna valenza programmatica vera. E in cui tutti si sentono vincitori, al di là della effettiva conta.

Che Renzi abbia fatto dei grossi errori tattici, di questo non pare esserci dubbio. Questi errori non riguardano solo la gestione della campagna referendaria. La cui personalizzazione, resa ancor più marcata dai toni usati, ha dato l’idea di arroganza e saccenza. Scavando un solco profondo tra lui e un elettorato scontento per le condizioni economiche in cui versa, nonostante le promesse ricevute. Ma una certa carenza tattica si era già manifestata con il caso Marino a Roma. Scaricato senza alcun riguardo, e poi risultato scagionato da ogni tipo di accusa. Sull’operato di Ignazio Marino come sindaco di Roma si possono avere le opinioni più disparate. Come di certo non si può essere teneri con quel Pd romano che non ha fatto della sobrietà, onestà e trasparenza i suoi tratti distintivi. Però, non averlo mai difeso, neanche nella più elementare “difesa d’ufficio” con qualche piccola dose di garantismo, si è ritorto contro all’ex Premier. Farlo sfiduciare da tutta la compagine del Pd in Campidoglio non ha creato alcuno scarto tra “colpevoli” e “innocenti”. Ha certificato un fallimento, a cui non c’è stata risposta politica adeguata. Non si trattava di difendere l’indifendibile, ma di non dare l’idea dell’abbandono del campo. Perché, a tutte le latitudini, nei militanti del Pd quanto accaduto ha lasciato un senso di smarrimento. Marino, in fondo, anche per quelle sue continue gaffe, non era un buon “partito” per l’immagine che Renzi voleva dare al Pd.

Ora c’è da capire come intenda rilanciarsi; col pericolo, da non sottovalutare, di un elettorato che potrebbe stancarsi per “sovraesposizione”. Renzi pensa di poter ripartire da una sconfitta. Ovvero, dai suoi numeri. È in quel 40 per cento che, secondo lui, si annidano i numeri della vittoria. Insieme alla presa che, a livello di immagine, ha nel suo partito, la quale risulta ancora forte. È vero che da una sconfitta non è detto non possa mai nascere una vittoria. Però le analisi “del sangue” di quel 40 per cento hanno già mostrato che non è tutta farina del sacco a disposizione di Renzi.

Se le ragioni della sconfitta sono state (anche) politiche, perché chi di politica ferisce di politica può perire, una mancata analisi di quanto è successo, e di quello che è stato fatto, in questi mille giorni di governo potrebbe essere fatale a Renzi. Perché lo farebbe apparire alla gente sempre lo “stesso”. E il tempo comunque è passato, e l’uomo di Rignano sull’Arno, pur rimanendo un “giovane” per gli standard politici italiani, qualche ruga ce l’ha. E non l’ha certo alleviata con questo Governo; che se pur del Pd doveva essere per forza di cose espressione, ha assunto dei tratti da “clone” della passata compagine. Che il Pd, in questo momento, appaia incapace di poter esprimere una forte leadership alternativa a Renzi, appare un dato di fatto. Di certo, essa, anche solo per un fatto di numeri, non può essere rappresentata da Roberto Speranza. Né tanto meno da Michele Emiliano. Personaggi troppo divisivi in un momento dove l’unico partito con una certa organizzazione rimasto in Italia ha bisogno di unità. Voler ridurre la rincorsa al rilancio solo ad una questione di alchimie tattiche, apparentemente tutte interne a chi il Pd lo ha, fino ad oggi, governato, potrebbe essere un grave errore per Renzi. Non bastano la conta interna o un giro in camper per rilanciarsi in una politica che vuole contenuti. A meno che Renzi non pensi, in fondo, di non aver sbagliato nulla. Questo sarebbe un perseverare, il quale potrebbe rivelarsi diabolico.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:29