La Cgil e gli strappi del Partito democratico

Come è stato ben sottolineato dal professor Pellacani, con un articolo apparso su questo giornale alla vigilia di Natale, nel Partito Democratico sta “per scatenarsi una tempesta perfetta”, in relazione al referendum sul Jobs Act voluto dalla Cgil.

L’uscita, anzi le uscite, infelici di Giuliano Poletti hanno di certo avuto il “pregio” di far salire preventivamente la temperatura corporea di un partito già dilaniato dalla battaglia referendaria appena persa malamente; che cerca ancora una precisa identità nella liquidità politica del nostro tempo; e che rischia di vedere nella caduta vertiginosa di Matteo Renzi una sorta di “tana libera tutti”, dovuta ad un riposizionamento in vista di battaglie congressuali ed elettorali. Inoltre, in questi anni, è stato lo stesso Renzi ad usare toni duri, se non sprezzanti, verso il sindacato “di casa”. Pare, avendo più riguardi per Marchionne che per la concertazione. Roba considerata forse vecchia, non traducibile ritualmente in un tweet.

Quindi, ora il problema si fa doppio. Perché, se il referendum lacera il Pd, con la tornata referendaria si possono giocare anche i futuri rapporti tra il più importante sindacato italiano e il partito con cui ha, da sempre, maggiori rapporti. Se non altro per una “concomitanza” di tessere comuni. Rapporti già ai minimi storici, ma con molte vie di comunicazione ancora aperte (vedi la Fedeli al Governo).

La scelta del referendum su “articolo 18”, voucher e appalti da parte della Cgil ha avuto, non solo connotati di merito rispetto a una battaglia che l’organizzazione di Corso d’Italia considerata importante, ma va letta anche come una contrapposizione rispetto al Pd renziano, con cui non sente (forse ricambiata) particolari affinità.

Questa contrapposizione è l’ultima, in ordine di tempo, delle varie fasi che hanno caratterizzato i rapporti tra il Pci, poi Pds, Ds e ora Pd e la Cgil negli anni.

Partendo dalla “cinghia di trasmissione”, con una predominanza del partito sul sindacato, di cui l’ultimo atto si è consumato quando il Pci volle la Cgil, di un Lama assolutamente riluttante, schierata sul cd referendum sulla scala mobile. Poi, si è veleggiato negli anni della concertazione in un’epoca politica molto turbolenta, fino ad arrivare al “primato” del sindacato sul partito. Che ha avuto il suo suggello scenico con i tre milioni del Circo Massimo, accorsi alla chiamata di Sergio Cofferati. Manco a dirlo sull’articolo 18.

Mentre i partiti si sfaldavano per mancanza di identità, e per incapacità programmatica, il corpaccione del sindacato pare resistere. Pur non senza difficoltà. Oggi, invece, siamo allo scontro totale. E già mentre Renzi metteva in atto il suo Jobs Act, la Cgil rispondeva con la sua “Carta dei diritti universali del lavoro”. Un’elaborazione totalmente diversa dal progetto renziano. Poi è arrivato il “No” degli organi confederali al referendum costituzionale, pur lasciando piena libertà di voto a tutti gli iscritti. Ora, nel Pd c’è chi “approfitta” della sponda sindacale per iniziare una nuova battaglia politica. Per cercare consensi in un bacino che, man mano, ha visto tanto allontanarsi, quanto assottigliarsi. In questo, a dire il vero, può leggersi anche un’incapacità politica nel dare soluzione ai problemi che, oggi, vengono affrontati “ortopedicamente” dal sindacato, nella cui “scia” non saranno in pochi a mettersi. Tra le cause che pondereranno le mosse future di Renzi, di certo il referendum si presenta come la più spinosa, perché si pone di traverso ad un percorso che non accetta troppi ostacoli per non impantanarsi. Senza considerare che qui è in gioco uno dei provvedimenti che più hanno caratterizzato l’epoca renziana. Il non metterci la faccia sarebbe devastante per Renzi.

A meno che non si trovi un “escamotage” in grado di bypassare l’ostacolo, come le elezioni politiche, si impongono altre brevi riflessioni. In uno scenario in cui c’è la possibilità di un Pd lacerato, con una sinistra a sinistra del Partito Democratico non in grado, a quanto sembra, di poter assurgere a protagonista di un’area comunque troppo vasta per i suoi attuali connotati. Con una destra che oggi ha nei movimenti populistici il suo corpo più consistente, e che non sembra in grado di elaborazioni particolarmente sofisticate. Sorge la domanda di chi sarà in grado di prendersi carico politicamente del risultato del referendum. Soprattutto, se esso arriderà alla Cgil. Se la Cgil risulterà, come possibile, vincitrice, avrà comunque “esaurito” il suo compito. A quel punto la palla dovrebbe passare alla politica. Ma a chi?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:52