La patata bollente dell’accoglienza

Nei dossier della politica c’è una questione che scotta: si chiama “immigrazione”. Lo sa bene Matteo Renzi che, come già accaduto al referendum del 4 dicembre scorso, nelle prossime urne delle politiche peseranno, e molto, i voti della protesta anti-immigrati. Lo sa bene il Premier Paolo Gentiloni che ha voluto al suo fianco, da ministro dell’Interno, l’esperto Marco Minniti in sostituzione di un disastroso Angelino Alfano. Oggi Minniti, pur con l’ostilità dichiarata di buona parte del suo partito, prova a cucire una pezza sul problema proponendo di riaprire i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) e puntando ad un piano di rimpatri degli irregolari più efficace di quelli fasulli degli ultimi anni. E lo sa bene lo “zelig” Beppe Grillo che sta riposizionando il suo movimento su strategie di contrasto dell’immigrazione clandestina più in sintonia con l’umore del Paese. Lo ha compreso anche Silvio Berlusconi, il quale ha fatto dire ai suoi che Forza Italia è pronta a sostenere le iniziative del Governo per una più rigida regolazione dei flussi migratori. Lo sa pure Matteo Salvini che se la ride sotto i baffi. Basta guardarlo in faccia per leggergli un soddisfatto: “Ve l’avevamo detto”.

La storia della rivolta di Conetta, poi, è capitata come il cacio sui maccheroni. Ora sarà più facile distinguere chi sia pro o contro il sistema d’accoglienza fin qui tenuto in piedi. La verità è stata squadernata in ogni sua piega: il traffico di migranti attraverso il Canale di Sicilia è un rubinetto spanato. L’Europa non ci sta a farsi sommergere dall’invasione e per questo ha sigillato le frontiere con l’Italia. La filiera affaristica messa su con il sistema dell’accoglienza, che ha di fatto creato un matching tra scafisti e Stato italiano, non regge più. I piccoli e i grandi centri del nostro Paese, pesantemente penalizzati dalle politiche dei tagli alla spesa pubblica corrente destinata al welfare, non sono in grado di sostenere l’impatto socio-economico di una massa crescente di individui che entra in contatto, e spesso in conflitto, con le comunità dei residenti. Le popolazioni locali non ci stanno a subire una discriminazione alla rovescia: tutto agli immigrati, niente per gli autoctoni. Il sistema produttivo nazionale, a dispetto delle false narrazioni propalate dal renzismo, non è in grado di assorbire quote aggiuntive di forza-lavoro. A essere precisi non riesce a offrire opportunità ai disoccupati italiani, figurarsi agli altri.

Alla luce di questo bel quadretto non è difficile immaginare che l’attuale Governo voglia provare, se non ad invertire la rotta, quanto meno a porre rimedio all’insostenibilità del sistema. Tuttavia, non avrà alcuna speranza di successo nel dare adeguata ospitalità a quelli che già ci sono se prima non proverà ad arrestare il flusso dei nuovi arrivi bloccando le partenze dalle coste libiche. A dispetto delle enormi fesserie che raccontano i multiculturalisti sull’ineluttabilità storica delle migrazioni, arginare il fenomeno si può. Come? Semplicemente ordinando alle navi che effettuano i salvataggi in mare, una volta soccorsi i naufraghi, di riportarli ai porti di partenza. Quando sarà chiaro a tutti che la rotta dalla Libia per l’Italia è chiusa, finirà anche il business. È la legge del mercato, che vale per le merci e, in egual misura, per le persone trattate alla stregua di merci da commerciare.

Questo giro di vite non piacerà a qualche predone del deserto che in questi anni ha fatto denari a palate con il traffico di esseri umani. Non piacerà ai capi delle cooperative e di tutte quelle imprese che hanno fatto dell’accoglienza il nuovo Eldorado affaristico. Non piacerà ai teorici della “società aperta” che hanno speso tutte le loro energie nella missione di dimostrare l’assurdo, cioè che un mondo senza frontiere, e senza identità, fosse un mondo migliore. Pazienza per tutti loro, ma prima ci sono gli italiani. E gli italiani ne hanno le scatole piene di questo solidarismo da un tanto al chilo. È ora di dire basta. Ci piace tanto atteggiarci a paladini del “modello europeo”? E allora facciamo gli “europei”, ma fino in fondo. Non soltanto quando ci fa comodo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45