The Donald: è tornato   il realismo in politica?

Non si sa se al discorso d’insediamento di Donald Trump seguirà un’azione politica (del tutto) coerente. Un approccio realistico alla politica non può perdere di vista l’adagio onde “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, quanto mai vero in materia.

Fatta questa premessa prudenziale colpisce nel discorso di Trump l’evidente differenza con quello che avrebbe potuto pronunciare un neo-eletto presidente devoto al buonismo o al politically correct o a l’angélisme, ovvero a tutte le declinazioni della politica delle buone intenzioni. Concezione assolutamente prevalente nei discorsi politici degli ultimi decenni. Mentre quello di Trump è tributario della politica (e del politico) classica: quella degli interessi, del comando, della protezione e della giustificazione e legittimazione del potere attraverso risultati positivi e non buone intenzioni.

Ne ricordiamo all’uopo i passi salienti (e le omissioni, al riguardo, significative). Trump ha esordito con un appello all’unità nazionale (più volte ripetuta): “Noi cittadini americani siamo uniti nel formidabile sforzo nazionale di ricostruire il nostro Paese e di ripristinare promesse per il nostro intero popolo. Insieme determineremo le sorti dell’America e del mondo per molti anni a venire...”. L’omissione al riguardo significativa è che non è invocato l’appello ad altre entità se non il popolo degli Usa: mentre, in altre bocche, la prima sarebbe mancata (o sarebbe stata annacquata) dal richiamo alle “magnifiche sorti” dell’umanità, ai valori universali, religiosi o laici, ovvero alle competenze tecniche e ai mercati. Tutti tralasciati – e significativamente – nel discorso presidenziale. Trump ha proseguito contrapponendo popolo ed élite: “Oggi non stiamo semplicemente effettuando un trasferimento di poteri da un’amministrazione ad un’altra o da un partito ad un altro, bensì stiamo trasferendo il potere da Washington D.C. e lo stiamo restituendo a voi, popolo... (prima)... I politici prosperavano, ma i posti di lavoro venivano meno e le fabbriche chiudevano. Il sistema proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro paese. Le loro vittorie non sono state le vostre vittorie. I loro trionfi non sono stati i vostri trionfi”. E così ha individuato nel consenso, nell’idem sentire tra élite e popolo la chiave per una convivenza politica stabile, unita ed efficace. Anche in tal caso, l’omissione è quella dei ditini alzati (e la bacchetta pronta) per correggere i comportamenti del popolo bue, ignorante, cattivo e maleducato, cui ci hanno abituato.

Perché, ha soggiunto Trump: “Al cuore di questo movimento sta una convinzione cruciale: che una nazione esiste per servire i suoi cittadini”. Anche qui un buonista/angelista avrebbe detto che lo Stato (o la Nazione) sta per servire l’umanità, per proteggere i diritti umani, (i diritti dell’uomo assai più che quelli del cittadino) come ripetuto assai sovente; e molti governanti pensano perfino che nazione e Stato esistano per pagare i creditori. Prassi stigmatizzate dal nuovo presidente in nome della solidarietà tra cives, che ha aggiunto: “Siamo una nazione e il loro dolore è il nostro dolore. I loro sogni sono i nostri sogni e i loro successi saranno i nostri successi. Abbiamo un solo cuore, una sola patria e un solo destino glorioso”; e di conseguenza “ogni decisione sul commercio, sulle tasse, sull’immigrazione, sulla politica estera, verrà presa a vantaggio dei lavoratori americani e delle famiglie americane”. Per cui “cercheremo amicizie e buoni rapporti con le nazioni del mondo, ma lo faremo nella convinzione che sia nel diritto di tutte le nazioni mettere al primo posto i propri interessi”. Poi Trump ha individuato il nemico principale: “Uniremo il mondo civilizzato contro il terrorismo del radicalismo islamico, che faremo scomparire dalla faccia della Terra. E il fondamento della nostra politica sarà una devozione assoluta agli Stati uniti d’America e, attraverso la lealtà del nostro Paese, riscopriremo la lealtà reciproca fra le persone”. Non più quindi politica piagnona che nega il nemico e financo la di esso possibilità d’esistenza. La protezione – che giustifica il diritto al comando – sarà data dalla potenza e dall’organizzazione: “A proteggerci saranno gli uomini e le donne formidabili delle nostre forze militari e della polizia e, soprattutto, Dio”.

Il personale politico dovrà cambiare: “Non accetteremo più uomini politici che siano solo parole e niente azioni, che si lagnino costantemente senza mai far nulla al riguardo. Il tempo per i discorsi vuoti è finito. Ora arriva il momento dell’azione. Non lasciate che nessuno vi dica che è impossibile. Nessuna sfida è pari al cuore alla combattività e allo spirito dell’America”. Quanto all’economia, deve cambiare registro: “Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni create da altri Paesi che producono i nostri prodotti, ci sottraggono le nostre aziende e distruggono i nostri posti di lavoro. Il protezionismo porterà grande prosperità e forza”. Cioè, come scriveva quasi due secoli fa Friedrich List, si passa dall’economia cosmopolitica all’economia politica; quest’ultima che tiene in conto soprattutto gli interessi della nazione. Ciò significa, in altri termini, che la politica riprende il primato sull’economia. Anche qui è lampante la diversità del discorso di Trump dalle esternazioni sui “mercati che decidono” o sui “compiti a casa” dei governanti (e così via) cui siamo stati abituati da chi suppone la politica soggetta all’economia, i governanti alle banche e alla finanza.

Quanto alle questioni prima evidenziate, il richiamo agli interessi dello Stato è un classico del realismo politico, particolarmente approfondito nella Francia nel grand siécle da Richelieu a Naudé a Rohan. Che poi i governi debbono dare protezione ai cittadini senza la quale non è dovuta l’obbedienza è scritto da Hobbes nelle ultime pagine del Leviathan. Che gli Stati siano fatti per garantire diritti ed interessi della comunità e anche dei sudditi o dei cittadini, è, anche questa, affermazione condivisa da tanti, laici (Machiavelli, Botero, Locke, Federico il Grande, tra i tanti) e non (Suarez, Bellarmino); anzi Suarez sospettava di quei governanti che pretendono di avere (anche) la missione di tutelare i diritti dei sudditi non loro. Anche il richiamo all’idem sentire tra élite e popolo è un classico del realismo politico; diversamente da quanto pensano i piagnoni-parrucconi contemporanei non è la bontà dei valori comunitari ma la loro condivisione (e con essa il riconoscimento del titolo e l’assenso all’azione di governo) a creare unità e coesione politico-sociale.

All’inverso di quanto pensano i buonisti in servizio permanente effettivo, l’omissione sui diritti umani non è sintomo di durezza di cuore, d’animo insensibile (e così via), insomma d’intrinseca “cattiveria”; ma può, al contrario, ottenere l’effetto di ridurre i conflitti e gli interventi armati, istigati o secondati i primi, realizzati i secondi, in nome dei “diritti umani” e castigare i cattivi che li conculcano. Affermazioni doppiamente contestabili in primo luogo perché sospette d’ipocrisia: si fa guerra per i diritti umani a parole, ma nei fatti per soldi (petrolio, ecc.) o per interessi strategici (il dominio su aree sensibili e/o cruciali). Peraltro i cattivi da punire sono una modesta percentuale di quelli che governano violando i diritti umani e che i politici di “buon cuore” lasciano tranquillamente in pace. La seconda che di solito certi interventi aumentano il disordine, i danni e i lutti nelle zone da “salvare” (ed hanno un costo di vite umane anche per i “salvatori”): come si dice in veneto “pezo el tacon del buso”. Meglio evitare.

Non sappiamo quanto sarà la misura dello scarto tra intenzioni e risultati nella presidenza Trump, ma il discorso lascia prevedere un cambiamento rilevante e, per gli ultimi decenni, innovativo. Come scriveva Machiavelli, è “più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa” perché “colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua”. E il nuovo presidente ha, per ora, almeno il merito di essersi tenuto lontano dalle “immaginazioni” in voga nell’ultimo ventennio.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:46