Protesta e astensione  degli avvocati penalisti

Alla fine siamo scesi in piazza. Ieri con i componenti del direttivo della Camera Penale di Roma e con molti soci non ci siamo limitati ad astenerci dalle udienze. La nostra tesoriera Roberta Giannini ha preparato uno striscione e, con la toga indosso, dopo esserci astenuti in aula, ci siamo recati tutti davanti all’ingresso del Tribunale di Piazzale Clodio. Abbiamo distribuito volantini, cercando di spiegare ai cittadini il perché di una protesta; e che questa protesta è fatta nel loro esclusivo interesse. Perché questa è, ed è sempre stata, la cifra distintiva delle nostre manifestazioni: la difesa dei diritti di chi - e può capitare a tutti - si trova sottoposto a un processo. Questa volta attentati dal ddl di riforma della giustizia su cui il Governo ha posto la fiducia.

Partecipazione al processo solo in videoconferenza e ingiustificato allungamento dei termini di prescrizione, sono i due punti nodali della (contro)riforma, che ci preoccupano. Con la nuova legge nella maggior parte dei processi un detenuto non potrà più difendersi sedendo accanto al difensore in aula, ma assisterà all’udienza tramite un monitor. Questo non è un processo e al detenuto non sarà assicurata una difesa effettiva. Bisogna non avere alcuna esperienza di processi per non volersi rendere conto di come l’impossibilità di interfacciarsi costantemente con il difensore, e anche con il giudice e il pubblico ministero - che invece saranno tutti insieme in un’aula posta anche a migliaia di chilometri di distanza - si risolva in una pesante limitazione alla capacità di difendersi.

Secondo una concezione autoritaria della giustizia, che vede l’imputato oggetto del processo e non di certo soggetto attivo dello stesso, il protagonista principale, quello sulla cui pelle ricadranno le conseguenze processuali, viene posto nella condizione di non poter seguire con piena cognizione la propria vicenda processuale. Potrà vedere solo quello che inquadra in quel momento la telecamera della videoconferenza, dovrà interrompere l’ascolto di un teste per recarsi nella postazione dove si trova il telefono per colloquiare con l’avvocato, non potrà esaminare i documenti che saranno prodotti dalle parti. E tutto in una falsa e incivile ottica di maggiore efficienza e di risparmio. Falsa perché la spesa per allestire presso ogni tribunale e presso ogni carcere strutture idonee alla videoconferenza per tutti i detenuti sarà dispendiosissimo. Incivile perché è dal rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, e non dall’utilitarismo economico, che si misura la statura morale di uno Stato. Ancora più ipocrita appare poi la volontà di riformare il regime della prescrizione. La sospensione della prescrizione difatti allungherà i tempi del processo in spregio al principio costituzionale della ragionevole durata. Non servono prescrizioni più lunghe, ma processi più brevi: se in più di 10 anni non si termina un processo il problema è la giustizia e non il tempo.

Quello che si invoca non è un diritto alla prescrizione. Ma il diritto che il cittadino non abbia una “vita sospesa” per un numero irragionevole di anni. Chi è sotto processo, sottoposto alla pena e alla sofferenza di tale stato, ha il sacrosanto diritto di avere una risposta in ordine alla propria innocenza o colpevolezza, entro termini ragionevoli. E se attualmente il “sistema giustizia” non riesce a soddisfare tale esigenza in termini ragionevoli si deve intervenire sulla patologia della lungaggine della procedura. Non certo prorogando la procedura sulla pelle esclusiva di chi vi è oggetto.

Ecco, questo abbiamo cercato di spiegare ieri in piazza. E questo è il messaggio che speriamo venga raccolto dalle forze politiche affinché questa battaglia di civiltà non sia portata avanti solo dagli avvocati penalisti.

Aggiornato il 27 aprile 2017 alle ore 16:46