La Consulta si occuperà della legislazione antimafia

Può una norma antimafia essere così generica - come una legge del settembre 2011 - da prescrivere a gente già condannata e che ha espiato la pena di “vivere onestamente” e “rispettare la legge”? E da prevedere una aggravante ad hoc nel caso che questi comportamenti non vengano tenuti?

E chi decide quando queste due categorie della morale vengono travalicate? Secondo la seconda sezione penale della Cassazione, no. E infatti si è rivolta alla Consulta per rovesciargli la patata bollente di una parte consistente di questa legislazione di tipo preventivo, misure di sicurezza e affini, perché ne accerti l’aderenza alla Carta costituzionale per quel che riguarda eventuali violazioni degli articoli 25 (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”) e 117 della suprema carta.

Il 117 in particolare fa esplicito riferimento ai “vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” rispetto alla potestà legislativa italiana. Il tutto in riferimento all’articolo 7 della convenzione europea dei diritti dell’uomo che fa riferimento alla prevedibilità e alla determinatezza di ogni reato. Sotto vaglio costituzionale il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 - Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136 - articolo 75, comma 2.

Il caso è stato sollevato da un imputato – indicato nella ordinanza di Cassazione con le iniziali S.C. – per associazione mafiosa che finito di scontare la propria pena era stato messo in misura di sicurezza così come prevede il Codice antimafia. Fin qui nulla di strano. Il problema è che oggettivamente la persona “non si era comportata bene” in quanto si era fatta beccare per una rapina. Ma la pena per la rapina era stata troppo alta proprio per violazione di quei due precetti abbastanza indeterminati di cui sopra, cioè comportarsi bene e vivere onestamente seguendo le leggi dello Stato. Ora è chiaro che se uno commette rapine mentre sta in misura di sicurezza, ad esempio al soggiorno obbligato, non si è affatto comportato bene. Ma la Cassazione dubita che questo comportamento possa implicare un’ulteriore aggravante per i condannati per mafia. E lo dubita perché concetti come “bene” e “male” non possono far parte delle norme penali. Che puniscono i reati e non i peccati.

Certo, rimangono tutte le aggravanti per un pregiudicato che torna a delinquere, ma perché dargliene una in più che si basa su discutibili principi giuridici figli di una stagione di emergenza antimafia che sembra peraltro destinata a non finire mai più?

Aggiornato il 01 febbraio 2018 alle ore 08:17