Caro Di Maio, quanta fretta di comandare

La formazione del governo dell’ottavo Paese più industrializzato al mondo non è un gioco. Le mosse del futuro Consiglio dei ministri non avranno soltanto ricadute sugli standard di vita della popolazione italiana ma incideranno sul peso che il sistema industriale nazionale dovrà garantirsi negli scenari della globalizzazione. Se ciò vale per le grandi imprese private che valorizzano il marchio del “Made in Italy” all’estero – in realtà poche dopo la stagione dello shopping dei capitali stranieri nella manifattura nostrana – a maggior ragione il discorso deve valere per quel gruppo d’aziende ancora in mano pubblica che coprono settori strategici della nostra economia. Perciò non sarà indifferente conoscere l’identità di chi sarà chiamato a compiere scelte decisive per il futuro di quelle imprese. E qui la possibilità che siano i grillini  ad avere la meglio deve interrogarci.

Le loro prediche sulla decrescita felice, sull’annichilimento delle politiche industriali a vantaggio di un’utopistica trasformazione in senso ambientalista tout court della società; le filippiche sulla comunità disarmata che ripudia l’industria bellica, sono state soltanto propaganda o troveranno fondamento di realtà nell’azione di governo? Vorremmo saperlo prima che sia tardi. Poche cose sono rimaste in appannaggio dello Stato italiano dopo la stagione delle svendite scriteriate delle grandi aziende pubbliche. Ed esse funzionano e fanno profitto, oltre ad essere eccellenze planetarie nei rispettivi settori di competenza.

Ora, la domanda è: cosa pensano di fare di questo grande patrimonio nazionale i grillini? Sono pronti a smantellarlo per tenere fede ai loro propositi velleitari oppure riconoscono che, alla prova dei fatti, il pragmatismo della continuità nella difesa degli interessi strategici italiani debba prevalere sui credi settari ispirati alle filosofie new age delle comunità hippy degli anni Sessanta/Settanta del Novecento? Giusto per intenderci parliamo della sorte di circa 80 imprese, delle quali alcune del calibro di Eni, Leonardo, Enel, Rai, Cassa Depositi e Prestiti. Se è vero che i loro destini industriali sono determinati dalle governance che le dirigono, è pur vero che quelle governance sono elette da assemblee societarie nelle quali il Ministero dell’Economia ha la maggiore voce in capitolo. È in questo modo che la politica entra nella vita delle aziende pubbliche partecipate dallo Stato: nominando alla guida di quei colossi manager che siano espressione delle maggioranze parlamentari.

Finora, nell’alternanza destra/sinistra garantita dal bipolarismo le policies non hanno subito significativi stravolgimenti, al di là delle personalità chiamate a implementarle. Ma il vento del 4 marzo ha mandato a gambe all’aria l’antico regime che prevedeva di tenere fuori dalla lotta ideologica i “gioielli” dell’economia di Stato. Con i Cinque Stelle sull’uscio di Palazzo Chigi il problema c’è.

In concreto, cosa penserebbero di fare i grillini se ad esempio toccasse a loro decidere del futuro di Eni che rinnova i propri vertici nella primavera del prossimo anno, come anche il colosso della meccanica, “Leonardo”? Manderebbero in comando loro uomini di fiducia con l’incarico di smantellare il settore della ricerca petrolifera e dell’acquisizione di giacimenti d’idrocarburi nel mondo, per assecondare la riconversione totale di Eni alle energie prodotte dalle sole fonti rinnovabili? E a “Leonardo” cosa  accadrebbe? Abolizione di tutti gli asset della produzione di armi, per indirizzarla esclusivamente al settore civile? Si fa entrare il pacifismo nella progettazione e costruzione dei più avanzati sistema d’arma in circolazione? In questi giorni sono in scadenza i Consigli di amministrazione di Saipem e di Cassa Depositi e Prestiti. La Saipem s.p.a., come si legge sul suo sito web, ha “una posizione di leadership nell’ambito dell’Engineering & Construction Offshore, con un forte orientamento verso le attività del settore Oil & Gas in aree remote e in acque profonde”. L’assemblea degli azionisti sul rinnovo del Cda è convocata per il 3 maggio, mentre il termine perentorio per la presentazione delle liste dei candidati è fissato al prossimo 9 aprile. Andrea Roventini, ministro dell’Economia in pectore di un ipotetico governo dei Cinque Stelle, avverte il premier Paolo Gentiloni, in carica per il disbrigo degli affari correnti, che le scelte di competenza governativa dovranno essere condivise con l’attuale Parlamento.

Ciò significa che il rappresentante grillino intende giocare la partita delle nomine da protagonista. Richiesta più che legittima, visti gli esiti elettorali. Tuttavia, Roventini dovrebbe fare uno sforzo in più indicando, oltre al metodo di selezione, anche la mission che a suo parere, o secondo i piani del suo partito, l’azienda pubblica dovrebbe perseguire per il futuro. Perché se è del medesimo tenore di quella indicata per la Cassa Depositi e Prestiti, non ci siamo proprio. Quando Roventini scrive: “La Cdp (Cassa Depositi e Prestiti) può diventare veicolo d’innovazione e crescita, contribuendo allo sviluppo industriale e tecnologico dell’Italia” intende forse utilizzare il forziere del risparmio italiano per rifare la “Cassa del Mezzogiorno”?

Se è così che stanno le cose, meglio non fare nulla e congelare la fase delle nuove nomine attendendo che la situazione politica generale si chiarisca. Luigi Di Maio e compagni si comportano come se già avessero preso possesso di Palazzo Chigi. Ma non è ancora accaduto e non è detto che accadrà. Perciò la pretesa di dettare ordini sugli assetti strategici del Paese è quanto meno prematura. Il giovane leader pentastellato ha origini napoletane per cui capirà benissimo cosa vogliamo intendere se diciamo che “Ammo fatto primma ’o scurriato e ppo’ ’a carrozza”.

Aggiornato il 30 marzo 2018 alle ore 13:36