Italia-Cina, chi vince e chi perde

Italia e Cina hanno contratto un matrimonio d’interessi. Molto si può discutere dei rischi che un’insolita unione contenga, non fosse altro per il fatto che i due contraenti non sono sullo stesso piano. Troppo grande e potente l’uno, troppo piccolo e strategicamente limitato l’altro.

Tuttavia, un patto, al pari di un qualsiasi matrimonio, è una scommessa. Potrebbe andar male, non per questo non si deve provare. La sottoscrizione del Memorandum of Understanding, firmato lo scorso sabato dai rappresentanti dei due Paesi nella splendida cornice di Villa Madama a Roma, resta un fatto storico. Piaccia o no, è un indubbio successo che la parte grillina ascrive a se stessa. Lo abbiamo visto tutti, in mondovisione, il ministro Luigi Di Maio firmare l’accordo-quadro sotto lo sguardo compiaciuto e sornione del presidente Xi Jinping. Per il gigante cinese è stata una vittoria strategica. L’Italia non è una grande potenza mondiale ma la sua posizione all’interno della Unione europea, del G7 e della Nato ne fa un boccone ghiotto. I cinesi, smaniosi di espandersi in Europa, non avrebbero potuto trovare cavallo di Troia migliore perché il nostro Paese rappresenta la piattaforma geografica nel Mediterraneo che punta dritto al cuore del vecchio continente. La Cina si candida a qualcosa di più che vendere in Europa la sua mercanzia. L’ambizione strategica è di partecipare alla riconversione del modello di sviluppo del vecchio continente con opere e non solo denari. Costruire reti telematiche, ponti, ferrovie, autostrade, ampliare porti e gestirli si traduce in un controllo diretto della pianificazione intermodale del più ricco mercato al mondo.

Oggi alla Cina, che si propone come socio occulto dell’Italia, potrebbe essere consentito ciò che non è stato permesso alla Federazione Russa e in parte neppure agli Stati Uniti d’America. Era scontato che i nostri alleati non digerissero una pillola tanto vistosamente amara, anche se per ragioni molto differenti. L’amministrazione di Washington è furibonda perché pensa agli equilibri geopolitici che la fuga in avanti dell’alleato italiano mette a rischio. I padroni del vapore europeo, invece, ne fanno una questione di bottega. Francia e Germania hanno lavorato per stabilire un diritto di prelazione sul mercato cinese rispetto ai partner comunitari. L’idea che l’Italia abbia rialzato la cresta bruciando sul tempo i più accreditati interlocutori europei è vissuta come una sconfitta dell’asse franco-germanico. Ciò spiegherebbe le ineleganti escandescenze alle quali si sarebbe lasciato andare il signor Emmanuel Macron a proposito del Governo italiano.

Ora, se le preoccupazioni di Washington sono legittime e da tenere nella massima considerazione, molto meno si deve prestare orecchio alle lamentale che giungono dalle principali capitali europee. Solo oggi si scopre che la Cina è un avversario di sistema dell’Europa. Perché non si è detta la medesima cosa quando le autorità di Berlino si accordavano con Pechino per fare della città portuale di Duisburg l’hub del commercio cinese più grande d’Europa? Ogni settimana 30 treni provenienti dalla Cina arrivano al terminal nel porto interno della città renana, scaricano vestiti, giocattoli ed elettronica hi-tech e imbarcano auto tedesche, whisky scozzese, vino francese da portare in Estremo Oriente. Non sarà stata ratificata in pompa magna com’è avvenuto l’altro ieri in Italia, ma la strada che porta a Duisburg è un pezzo della via della seta fatto e finito. Secondo dati InfoMercatiEsteri della Farnesina, nel 2017 la Germania ha esportato merci in Cina per un valore di 86milardi 169,9 milioni di euro e ha importato prodotti per 100milardi 726,7 milioni di euro. L’interscambio dell’Italia con la Cina nello stesso periodo ha segnato un saldo negativo tra i 13,5 miliardi di euro di esportazioni e i 28,4 miliardi di importazioni. Come direbbero i pescatori di perle del Guandong: Ma de che stamo a parlà? Il Memorandum siglato, al quale si accompagnano 29 accordi di settore di cui 10 istituzionali e 9 con grandi imprese, assicura nel breve termine un riequilibrio della bilancia commerciale oltre che un aumento di valore stimato in 20 miliardi di euro. Cioè, oltre un punto del Pil italiano. Se Francia e Germania in queste ore si sono lasciate prendere dalla sindrome della polpetta soffiata dal piatto è un problema loro, non nostro. Invocano l’unità degli europei quando è l’Italia a provare a fare affari per conto proprio? Dovrebbero ricordarsi sempre della pari dignità di un Paese fondatore dell’Unione e non soltanto quando fa comodo. Dov’era il rappresentante italiano quando la signora Merkel e il signor Macron ad Aquisgrana stringevano il patto per spartirsi le zone d’influenza e rimodellare la nuova Unione europea sulla base dei propri interessi nazionali? Sul fronte politico interno i Cinque Stelle hanno piazzato un colpo importante, che serve a bilanciare la netta sconfitta subìta ieri alle regionali in Basilicata. E lo hanno fatto a spese dell’alleato leghista che in questa circostanza, duole ammetterlo, ha sbagliato tutto.  

Matteo Salvini sulla Belt and Road Initiative (Bri) si è mostrato incerto, titubante. Alla fine si è defilato lasciando la scena al suo omologo Luigi Di Maio. La cosa stupefacente è che a seguire il negoziato fin dalle prime battute è stato il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, detto “il cinese” per la sua alta competenza in materia di economia dell’Estremo Oriente, che non è un grillino ma un componente della squadra di governo in quota alla Lega. Se c’erano dubbi sul memorandum perché Salvini non ha stoppato per tempo il suo referente? Ha lasciato che il negoziato andasse in porto per sfilarsi non prima di aver consegnato il suo alleato/avversario Luigi Di Maio alla storia del Paese. Francamente, non è stata una gran figata.

Aggiornato il 25 marzo 2019 alle ore 12:30