Migrazioni e proprietà privata

Le questioni migratorie sono e saranno per lungo tempo il nodo del dibattito politico italiano e non. Mi piacerebbe per una volta provare a mettere da parte sia la doverosa e inevitabile pietas nei confronti di esseri umani disperati che cercano di migliorare la propria vita, sia le legittime paure di molti italiani e europei nei confronti di un numero così elevato di persone che da un giorno all’altro diventano nostri vicini. C’è un aspetto infatti che non mi sembra sia stato trattato a sufficienza, anzi, forse non è stato minimamente sollevato: da ogni dibattito, e da ogni azione rispetto alla questione migratoria, emerge come coloro che sono più disponibili ad accogliere in realtà non credano nel concetto stesso di confini nazionali, e pensino che si debbano superare, quasi fossero un vecchio orpello ottocentesco. La differenziazione tra migranti economici o per cause belliche, rifugiati, richiedenti asilo ecc, sono solo questioni di lana caprina. Chi crede che si debba accogliere in realtà pensa che questo atto sia dovuto in generale alle persone che vengono da paesi disagiati, ma non solo: per loro le persone devono essere libere di muoversi, sempre. Pensiero legittimo che dovrebbe dare vita a un ancor più doveroso dibattito, mai davvero partito.

La mia opinione è che la questione dei confini nazionali debba essere vista nella sua interezza come uno spostamento e un allargamento della questione sulla legittimità della proprietà privata che ha tenuto banco almeno fino al 1989, e in realtà anche successivamente. La proprietà privata così come i confini possono essere visti come delle “linee”, più o meno fisiche, più o meno immaginarie, che circondano l’individuo singolo. Fino alla fine del secolo scorso (diciamo) una buona parte della sinistra pensava che questa linea (della proprietà privata) dovesse essere annullata sia attraverso forme organizzate, tassazioni più o meno invadenti, nazionalizzazioni, statalizzazioni, sia che fosse necessario giustificare o depenalizzare le situazioni in cui alcuni commettevano reato guidati dalla necessità (disperazione, fame e quant’altro). Lo stesso accade oggi con i migranti.

Il principio è evidentemente lo stesso e nessuno può negarlo: un uomo che muore di fame deve poter rubare, così come un uomo la cui casa sta per essere bombardata deve potersi spostare.

Il problema è che il mondo, la realtà che ci circonda, non è così semplice, e talvolta gli effetti collaterali possono fare infinitamente più danni degli effetti immediati. Ci sono voluti tantissimi anni, più di un secolo sicuramente, per smantellare l’ideologia che sorreggeva l’idea che la proprietà privata fosse un furto, o fosse un problema. Ci sono voluti tantissimi anni nonostante fosse evidente e matematico che quanto più la proprietà privata veniva criminalizzata e minata, tanto più aumentavano le persone che morivano di fame, i poveri, i disperati, e le libertà individuali venivano meno, spesso sino ad arrivare a forme di dittatura totalitaria. Lo si è visto in maniera lampante nei paesi comunisti, e in maniera più confusa in un mondo sedotto da teorie che negli anni 30-40, non a caso, hanno prodotto gente come Hitler e Mussolini, i quali orgogliosamente mantenevano il suffisso “sociale” nella loro definizione. Così come oggi i confini vengono visti come obsoleti, non dobbiamo mai dimenticare che, l’idea di sacralità della proprietà privata sembrava obsoleta (secondaria rispetto alle necessità “sociali”) negli anni 30 un po’ in tutta Europa, e poi ancora successivamente in Unione Sovietica e tra i molti pensatori di sinistra.

La libertà di proprietà privata dovrebbe essere vista invece come “la bolla” principale di difesa dell’individuo, dell’essere umano e delle sue libertà. Molti diranno che è orribile una forma di civiltà in cui alcuni possiedono molto e altri possiedono poco: concordo con loro ma non possiamo non parafrasare qualcuno che ricordò come si tratti della forma di civiltà peggiore, a eccezione di tutte le altre in cui questo principio è stato messo in discussione. Altri diranno che è un’invenzione umana, arbitraria, artificiale e artificiosa: verissimo anche questo. E aggiungerei “se Dio vuole”, visto che quanto esiste di buono nella nostra civiltà è proprio quanto di arbitrario ci ha permesso di sollevarci da una condizione animale oggi rimpianta senza avere idea di cosa significhi.

Soprattutto in quest’ultima critica all’artificiosità del concetto di proprietà privata (così come di confine) penso vi sia molto materiale su cui riflettere: coloro infatti che pensano che il superamento della proprietà (o dei confini) sia un passo avanti per l’umanità non riescono o non vogliono vedere come si tratterebbe di un passo indietro, perché l’umanità arriva in realtà, emancipandosi, da una condizione in cui non esisteva praticamente proprietà e non esistevano confini, in cui si viveva come animali e in cui l’uomo, non a caso, campava al massimo una ventina d’anni. Perché nel mondo animale vige solo la legge del “caos”, che coincide sempre con la legge del più forte. Lo ha dimostrato quel grande, vasto e dettagliato esperimento sociale che sono stati i paesi comunisti, in cui si è superato il concetto di proprietà privata, e in cui abbiamo assistito sia a scenari alla Mad Max, dove letteralmente sono sopravvissuti i più forti fisicamente, sia a scenari di kafkiano potere burocratico totalitario, vero e proprio Moloch in cui sopravvivevano solo i più forti e spietati nel conformarsi ridefinendo e “migliorando” le logiche della dittatura.

Ora, i casi possono essere due. Nel primo i sostenitori dei processi migratori pensano che la società occidentale, fatta di regole e leggi ma anche di dinamiche e abitudini informali, createsi in processi durati secoli, sia scolpita in un materiale indistruttibile e capace di assorbire qualsiasi cosa a qualsiasi velocità. Sinceramente dubito di questo, e gli ultimi sconvolgimenti politici a livello europeo dimostrano come ogni equilibrio sia in realtà estremamente precario e tanto fragile quanto prezioso. Nessuno di noi sa a quali conseguenze potrebbe portare un flusso migratorio sostenuto e, viste le premesse, preferirei non scoprirlo. Bastano pochi anni a spezzare un equilibrio, ma servono secoli a crearne uno nuovo. L’Italia (permettetemi di andare per un attimo nel particolare nostro) viene poi da una storia lunghissima di fallimenti nei processi di “assorbimento”: il gap che divide il nord dal sud non è stato quasi minimamente ridotto dal 1861, e non una sola mossa in questo senso da parte politica ha avuto successo. Nel secondo caso invece, tutto quanto cerca di andare oltre il concetto di confine può essere inscritto in quel concetto ripreso e reso famoso da un intellettuale come Tom Wolfe che va sotto il nome di “Nostalgie de la boue”, ovvero la “Nostalgia del fango”, la nostalgia di un fantomatico, fiabesco, infantile e perduto stato di natura, basato sul presupposto per cui tutti gli uomini sono nel loro intimo buoni, e in cui sarebbe possibile ricreare il paradiso in terra. In passato alcuni paesi ci hanno provato e abbiamo visto le conseguenze.

Aggiornato il 18 settembre 2019 alle ore 13:31