Pellicani, un socialista liberale intellettuale anticomunista scomodo

Alla manifestazione dell’Ulivo il 3 marzo 2002 a Piazza del Popolo a Roma, Luciano Pellicani, il massimo esponente del liberalismo socialista italiano, scomparso tra venerdì e sabato scorsi, lasciò tutti di stucco quando nel suo breve intervento ebbe il coraggio temerario, di criticare aspramente la linea politica dell’intera sinistra. La accusò senza giri di frase di essersi appiattita sulla demonizzazione di Silvio Berlusconi, sui girotondi e sul giustizialismo populista e dipietrista. Fu sonoramente fischiato, ma aveva ragione lui. In quel piccolo e grande gesto c’è lo spessore etico-politico di un intellettuale coraggioso e scomodo noto ai più solo per il famoso “Saggio su Proudhon”, ma che merita di essere onorato per molto altro.

Quel saggio fu scritto forse in toto da lui, ma fu pubblicato a firma di Bettino Craxi con il titolo un po’ irridente, Il Vangelo socialista, su L’Espresso il 27 agosto 1978. Con quell’articolo-saggio, Craxi, da circa due anni segretario del Partito socialista italiano, rompeva con il marxismo, metteva in mora il massimalismo interno al Psi e dava una base teorica al suo “autonomismo”. Ciò in sostanza significava emancipare il Psi dalla annosa subalternità, anche ideologica e culturale, oltre che politica, al Partito comunista italiano, a cui lo avevano portato vari suoi dirigenti fino a Francesco De Martino, che chiamava quella subalternità “equilibri più avanzati”.

Fu una vera svolta culturale e politica che segnò l’inizio di una lunga lotta interna alla sinistra tra il Psi che con Craxi cominciava a guardare all’Occidente liberaldemocratico ed il Pci che, tra mille ambiguità, continuava a guardare verso Mosca. La battaglia di Craxi per una modernizzazione e un risveglio politico culturale della sinistra (e dell’Italia) aveva avuto, per la verità, un antecedente importante, a fine 1977, con lo scontro sulla “Biennale del dissenso” di Venezia, a cui lo stesso Pellicani aveva collaborato come consigliere del presidente della stessa Biennale, Carlo Ripa di Meana. A quella clamorosa manifestazione furono invitati a partecipare, tra le aspre proteste di Mosca e l’imbarazzo ostile (e servile) del Pci, i perseguitati dissidenti sovietici e degli altri Paesi dell’Est che fino allora erano considerati come appestati.

Craxi diventò allora così la bestia nera non solo del Pci, ma anche “dell’orchestra rossa” di intellettuali organici, “compagni di strada” e “sinceri democratici” che lo seguiva pedissequamente e che già allora dominava nei mass media e nell’industria editoriale. Pellicani venne considerato il teorico della svolta craxiana e dello “scontro a sinistra” e, come tale, un pericoloso anticomunista militante da ostracizzare quando essere anticomunisti era considerato quasi un reato tra gli intellettuali suonatori “nell’orchestra rossa”. Pellicani era nato a Ruvo di Puglia nel 1939 da genitori comunisti. Il padre, Michele, giornalista, aveva lasciato però il Pci nel 1956, dopo la repressione sovietica della rivolta ungherese, ed era passato all’area socialista, per la quale fu più volte deputato e sottosegretario di stato. Luciano aveva quindi vissuto in famiglia il dramma del comunismo internazionale e si può dire che anticomunista lo sia stato praticamente da sempre.

Il suo sforzo costante – il suo sogno si può anche dire – era quello di emancipare il socialismo italiano dai legami con la cultura marxista e la tradizione comunista immettendovi la cultura liberale. Teorizzava l’esistenza di “due sinistre”: una riformista e liberale (risalente a Turati) ed una massimalista e rivoluzionaria destinata alla subalternità rispetto ai comunisti. Si è professato sempre un socialista o, almeno un uomo legato alla tradizione politica della sinistra. Il suo socialismo era di tipo piuttosto ottocentesco, cioè di carattere soprattutto etico, umanitario e radicalmente anticlericale.

Tuttavia negli ultimi anni aveva preso molto le distanze dalla sinistra politica: un paio di anni fa, mi disse: “In Italia c’è una sola cosa peggiore della destra ed è la sinistra”. Si considerava soprattutto uno studioso e si teneva un po’ distaccato dai politici, in generale da lui non amati. Fece eccezione Craxi, di cui ammirava il talento da animale politico e il sostanziale disinteresse personale, ma di cui condannava alla fine l’autodistruttiva imprudenza e l’eccessiva copertura da lui data a molti dirigenti socialisti, suoi vice o proconsoli. “Craxi – diceva – li lasciò troppo liberi di strafare ed anche di arraffare purché lasciassero a lui solo la grande politica”. È stato sempre per tutto questo un intellettuale scomodo per molti e semi-isolato nell’establishment culturale italiano. Da sinistra veniva considerato un pericoloso anticomunista vicino alla destra mentre dalla destra liberista veniva visto come un pericoloso socialdemocratico.

Pellicani ha pagato con l’ostracismo e la sordina dell’establishment intellettuale il suo anticonformismo (in particolare il suo anticomunismo) sin dalla metà degli anni ‘60, quando quella strana (e indigeribile) mistura tra marxismo-leninismo, gramscismo e marcusianesimo, chiamata “cultura del ‘68” (da lui definita “cultura del nulla”), diventò la “vulgata” conformista che egemonizzò la cultura italiana e che doveva poi sboccare nel politicamente corretto dei nostri giorni. Negli anni ‘60 Pellicani ebbe persino difficoltà a pubblicare i suoi primi libri perché considerato “di destra” in alcune case editrici. Del marxismo mostrò, in vari libri, la “miseria” scientifica ed etico–politica, di Antonio Gramsci mostrò la sostanziale ascendenza leninista (e gentiliana), di Lenin mostrò le sorprendenti analogie con Adolf Hitler, di Herbert Marcuse e della scuola di Francoforte mostrò che la loro radicale “dialettica negativa” ne faceva i nemici tra i più pericolosi della modernità liberaldemocratica occidentale. Si legga in proposito il suo libretto I cattivi maestri della sinistra.

Il suo illuminismo e la sua passione anticlericale lo spingevano anche talvolta a radicalizzare le sue posizioni in senso eccessivamente antireligioso ed anticristiano. Pur non negando che il socialismo fosse almeno in parte una secolarizzazione dell’umanitarismo di ascendenza cristiana, negava le radici cristiane dell’Europa, del liberalismo e, vieppiù dell’Illuminismo, e insomma della modernità che considerava, anzi, un prodotto storico di una lunga lotta al cristianesimo: sottolineava il lungo processo di erosione del sapere sacro da opera del sapere profano, della fede ad opera della ragione, della città sacra ad opera della città profana. La “vittoria della ragione” era vista da lui come vittoria culturale di Atene contro Gerusalemme: una vittoria che considerava però non definitiva, dato che temeva – forse esagerando– una resurrezione dell’assolutismo teocratico. Da volterriano (fu direttore a fine ‘900 anche di una delle prime riviste in Internet, intitolata appunto Voltaire) dava spesso l’impressione che non considerasse ancora realizzato l’auspicio ricorrente del maestro francese: “ecraser l’infame!”.

 Il punto critico è forse che Pellicani identificava – a mio avviso in maniera riduzionista – il cristianesimo con il millenarismo messianico ebraico (cioè con l’attesa escatologica di un millennario regno di Dio) e anche con la tradizione gnostica proto-cristiana ascetica (rifiuto radicale del mondo) e manichea (di lotta tra “figli della luce” e “figli delle tenebre”). Di conseguenza identificava il cristianesimo anche con l’azione pratica inquisitoria delle chiese cristiane (sia cattoliche, sia protestanti) contro l’eresia e la modernità liberale. D’altra parte, Pellicani interpretava i “rivoluzionari” europei (a cominciare dai giacobini francesi, passando per gli anarchici, per finire ai rivoluzionari di professione marxisti-leninisti e agli “intellettuali organici” gramsciani) come successive incarnazioni di un “risveglio” della gnosi e del “millenarismo soteriologico” (cioè salvifico), da sempre latenti nel cristianesimo e per secoli dormienti in Europa. Con la differenza che i novelli gnostici rivoluzionari ambivano a fare “tabula rasa” dell’esistente con un Armageddon caratterizzata dal terrore di massa finalizzato ad una “purificazione” della società dagli elementi infetti e contagiosi (gli “insetti nocivi” sia di Lenin, sia di Hitler – notava). La loro meta escatologica era “un regno di Dio senza Dio” e si proponevano persino la satanica meta di rifare l’umanità intera con la faustiana costruzione di un “uomo nuovo”.

Queste sono – secondo Pellicani– le radici culturali comuni dei due totalitarismi (quello comunista e quello nazista) accomunati anche – come sosteneva anche Hannah Arendt – da un analogo “odio per il borghese”. Paradossalmente Pellicani attribuiva quello che chiamava il “delirio gnostico rivoluzionario” proprio allo “shock” provocato sugli intellettuali da quel fenomeno epocale che è stato chiamato la “morte di Dio”. Che – notava– ha significato non solo la riduzione illuminista della religione a superstizione e delle chiese alle nietzschiane “tombe e sepolcri di Dio”, ma anche la fine di ogni senso della storia e della vita. Con questa crisi di senso veniva messa a rischio anche la pretesa degli intellettuali umanisti di interpretare la vita e la storia e quindi anche la loro aura carismatica. Quegli intellettuali reagivano perciò allo spaesamento creato dalla morte di Dio sostituendo quest’ultimo con assoluti terrestri e con ideologie rivoluzionarie che altro non erano che teologie secolarizzate, come il marxismo, dove la “inevitabile” rivoluzione sostituiva l’escatologia provvidenzialista cristiana.

Pellicani era un difensore illuminista e accanito della modernità liberal–democratica occidentale, inclusa l’economia privata di mercato, il capitalismo e la spinta del profitto tanto deprecati dai comunisti di vario genere. Memore delle ascendenze contadine dei suoi progenitori, ai comunisti ricordava che la modernità e il mercato, grazie alla loro sintonia con la scienza ed allo stato sociale, avevano liberato per quanto possibile la povera gente dalla fame, dalla miseria, dalle carestie, dalle epidemie, dagli arbitri dei sovrani assoluti (“in epoca premoderna titolari – ricordava– in epoca persino del diritto di vita e di morte specie sui contadini”) e, almeno nell’Europa degli ultimi decenni, persino dalla guerra. Denunciava – citando Vilfredo Pareto – la “superstizione” anticapitalista dei comunisti, dura a morire anche nei loro discendenti.

Fu perciò un grande critico dei nemici della civiltà occidentale di cui fece una vera anatomia in ben tre documentatissimi studi: I nemici della modernità, Anatomia dell’anticapitalismo e L’Occidente e i suoi nemici. Credeva nel progresso portato nel mondo dalla modernità occidentale nel suo complesso, ma non negava il segno ambivalente di quella stessa modernità. Sottolineava la necessità e la potenza del mercato e del profitto, ma ricordava – con Max Weber – che la stessa modernità aveva coperto la società con la “gabbia di acciaio” della burocratizzazione e dell’indecidibilità del politeismo dei valori; non taceva che essa aveva anche diffuso specie tra gli intellettuali il tipo umano del weberiano “specialista senz’anima, gaudente senza cuore”; sottolineava la potenza progressiva del mercato, ma stigmatizzava gli eccessi dei neoliberisti ideologici da lui definiti “adoratori fondamentalisti del dio mercato”. Leggeva Weber anche alla luce del grande filosofo e sociologo spagnolo socialista e liberale, José Ortega y Gasset, il cui pensiero e la cui importanza ha praticamente introdotto e diffuso in Italia. Di Ortega, in polemica con i nuovisti distruttori acritici di ogni tradizione, Pellicani citava spesso una frase: “Essere uomini significa essere nella tradizione. È la tradizione che ci rende uomini”. Singolare per un progressista.

Un altro suo punto di riferimento era Karl Popper, il filosofo liberale della società aperta. Pellicani sottolineava spesso l’importanza del “fallibilismo” popperiano sia in scienza sia in politica, ma avvertiva i pericoli del relativismo assoluto nichilista. Di Popper ricordava infatti anche la frase: “il relativismo (quello assoluto e nichilista, ndr) è la malattia filosofica più pericolosa del ‘900”. Pur essendo un ammiratore di Weber, Pellicani ha cercato di destituire di fondamento la principale tesi del famoso libro weberiano “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” e cioè che la radice spirituale del capitalismo dovesse individuarsi nell’ascetismo dei primi capitalisti e nella percezione protestante della ricchezza come segno del favore divino. Nel suo libro Saggio sulle origini del capitalismo (definito dalla rivista americana Telos “un classico della sociologia del ‘900) Pellicani documentò una violenta avversione dei primi riformatori protestanti allo spirito del capitalismo, le cui origini egli fa risalire invece alle dinamiche autonomistiche e mercatiste dei comuni italiani medievali.

Centrale nel suo pensiero era l’importanza nella storia delle civiltà e in particolare delle “guerre culturali”, e cioè dei conflitti di civiltà, che egli traeva da una lettura originale dei lavori di Arnold Toynbee ed in particolare del suo famoso Study on History (“mai tradotto integralmente in Italia” – si lamentava). Nei lavori di Pellicani il concetto di guerra culturale è centrale. Ne è stato un anticipatore, prima dell’uscita del libro di Samuel Huntington del 1996 sullo Scontro delle civiltà. È questo un primato che Pellicani rivendicava ricordando un capitolo del suo libro, La società dei giusti del 1995, intitolato La guerra culturale tra Oriente ed Occidente”. Delle “guerre di civiltà” considerava prototipo la guerra di Atene contro Sparta, emblemi rispettivamente della società aperta e liberale (Atene) e della società chiusa, tribale e militarizzata (Sparta), di cui considerava Gerusalemme una variante assolutista e teocratica.

Ancora a fine gennaio lavorava ad un libro dal titolo Guerre culturali che doveva raccogliere suoi saggi precedenti su questo argomento. “Sono all’ultimo capitolo, ma non mi riesce di concluderlo. Un po’ perché non riesco più a concentrarmi abbastanza, un po’ perché se lo finisco non so cosa fare dopo” – mi disse preoccupato per la sua diminuita capacità di lavoro. “Ho scritto venti libri. Posso essere soddisfatto perché il mio dovere nella vita l’ho fatto”. Poi dopo una pausa soggiunse: “Ma la più grande soddisfazione l’ho avuta quando alcuni miei allievi sono venuti a trovarmi dopo il mio pensionamento e mi hanno ringraziato. Mi hanno detto ‘grazie professor Pellicani per quello che ci ha insegnato’. E’ una grande soddisfazione, non ti pare?”.

Voglio concludere testimoniando un aspetto umano – ma anche culturale – di Luciano Pellicani. Nonostante il suo anticlericalismo e anticristianesimo ideologico, erano fortemente cristiani sia il suo socialismo, sia il suo liberalismo, sia le sue stesse critiche – di carattere soprattutto etico – al cristianesimo teologico e all’azione pratica della Chiesa (si veda per esempio il suo pamphlet Le radici pagane dell’Europa). Essi grondavano tutti di etica cristiana e di carità cristiana che tra l’altro praticava con i fatti. Quando, per esempio, Luciano veniva a sapere che un suo amico era ammalato o necessitava di un qualche sostegno, ne diveniva un assiduo e quasi quotidiano visitatore e si prodigava in tutti i modi. Era molto più cristiano di tanti “cristiani”. Ma quando glielo facevo notare si arrabbiava.

Aggiornato il 14 aprile 2020 alle ore 14:10