Antifascismi: tra vecchi culti e nuove culture liberali

C’è un filone, il quale – più di culto che culturalmente – associa l’antifascismo storico alla compagine politica, e partitica, rossa-socialista-comunista. C’è una parte del Paese Italia, non più eccessivamente ampia, che poco ricorda i grandi sacrifici dei liberali contro le atrocità del regime fascista. Nel 2021 gli italiani hanno vissuto una Festa nonché ricorrenza di Liberazione – la seconda ai tempi del Covid – che ha messo a fuoco, timidamente, l’altra liberazione che ci attende: dall’epidemia, dal coprifuoco e anzitutto dalle povertà economiche, dalle disfunzioni sanitarie a geografie variabili.

C’è un’Italia che vorrebbe cantare “Bella ciao” insieme a tutti, senza tingersi necessariamente di rosso. C’è un’Italia che vuole ricordare i grandi sacrifici dell’Arma dei carabinieri, degli alpini, dei preti cattolici, dei repubblicani, dei liberali, nella lotta contro il nazifascismo. L’obiettivo comune era la democrazia, lo sforzo pratico per affermare il pluralismo liberale, all’interno del quale si sarebbe edificata una società di liberi, e – in quanto liberi – di eguali nelle possibilità d’accesso al benessere, dipendente quest’ultimo anche dal proprio merito. Il patriottismo antifascista a tuttotondo ha ravvivato e rielaborato quell’italianità che si voleva edificare nell’Ottocento, ai tempi della lotta contro il dominio austriaco. L’antifascismo a tuttotondo però ha fatto ciò in un Novecento in cui il senso della Patria era stato confuso con il nazionalismo imperialistico e con la corsa agli armamenti.

Nei rituali dell’antifascismo pop odierno, poco si ricorda il genio del giovane liberale Piero Gobetti. Scriveva Gobetti che “le nostre sono antitesi integrali: restiamo storici, al di sopra della cronaca, anche senza essere profeti, in quanto lavoriamo per il futuro, per un’altra rivoluzione”. I liberali antifascisti hanno fatto l’antifascismo liberale, quello che non piegava la causa liberazionista alle sovversioni dei sistemi di libertà socio-economica. Tra i comunisti – ma solo tra i più intransigenti – vi era invece chi, durante la lotta al fascismo, adocchiava eventuali e vaghe occasioni per rincorrere l’altra via socio-economica da realizzare, attraverso una perversione ideologica quale era la cosiddetta dittatura del proletariato. Spesso nella storia i presunti marxisti hanno dimenticato alcuni dei rigori metodologici della dialettica marx-engelsiana, così come poco e niente sia i presunti che i veri marxisti hanno ricordato un’opera di Marx un po’ più “liberale”, in senso tiepido, ossia la “Critica del programma di Gotha”, in cui veniva criticato il mero egualitarismo spicciolo, retorico ed epigonale.

La lotta antifascista deve essere ricordata per il suo carattere unitario, capace di farsi spiaggia comune per tutte le chiese politiche, con la stella polare della libertà comune dal quasi-totalitarismo ch’è stato il fascismo. Con lo stesso spirito unitario dovrebbe essere ricordata da tutti la Liberazione, ogni 25 aprile, senza vedere gli estremisti di sinistra celebrare una propria Liberazione da centro sociale rosso, da un lato, e gli estremisti di destra non celebrare affatto o addirittura avversare ogni celebrazione istituzionale, dall’altro lato. Anche oggi dobbiamo prestare attenzione alle complessità e alle eterogeneità delle culture dominanti e non dominanti, senza cadere nei culti dell’antifascismo di stanco ritualismo immobile. Se l’antifascismo istituzionale riesce ancora a mantenere vivo il fuoco dell’equilibrio democratico e pluralista, una parte dell’odierno antifascismo di periferia non può auto-ridursi ad una anacronistica diatriba di fazioni residue, rosse da un lato e nere dall’altro. L’antifascismo non è mai settarismo, non è mai estremismo; l’antifascismo è sì posizione partigiana, ma è anche condivisione allargata di valori diversi, compenetrati reciprocamente nei limiti del possibile.

Le estremità di una corda, d’altronde, ci mettono poco a rendersi a forma di “U”, ritrovandosi a procedere parallelamente; e talvolta si ritrovano ad essere piegate fino a chiudere un cerchio, fino appunto ad unirsi. Gli estremismi spesso si ritrovano a rinunciare alla propria primigenia natura movimentista per sposare l’ottica poco laica del regime di potere a vocazione permanente, con il disprezzo per l’esistenza stessa del pluralismo partitico e delle opposizioni. Gli estremismi parlano di nemici, di sospetto, di sradicamento politico definitivo di coloro che predicano il loro superamento. L’ottica dell’egemonia funzionalizzata degli apparati partitocratici, così, si fa un’ottica assorbente nei confronti nonché in danno delle persone. Nell’ottica egemonico-cultuale dell’organicismo ideologico, la cultura viva del liberalismo viene depressa ed associata soltanto all’Ottocento, con i limiti che questo ha avuto sul piano dell’equità sociale.

Il liberalismo è un’altra cosa. La rivoluzione liberale è una rivoluzione costante, mite, non eccessiva, non nebulosa, non totalitaria. È una rivoluzione che rispetta la progressione democratica – mai troppo repentina – del costituzionalismo verso ulteriori spiagge costituzionali. La rivoluzione liberale non è mai escatologica, eppur si muove con fini e verso fini; essa spesso è una rivoluzione di battaglie vertenziali, le quali compongono un insieme che a prima vista appare un mosaico sempre incompiuto. La rivoluzione liberale si ciba di realtà senza rinunciare all’utopia, ma è ben consapevole che l’utopia serve nei momenti d’ispirazione, non in quelli di ristrutturazione e di progressiva riforma. La rivoluzione liberale è progressiva ma non immediatamente progressista, anzi nell’immediato allontana la tradizione e la conservazione accompagnandole, senza cancellarne la relativa memoria. La rivoluzione liberale non ha bisogno di farsi giacobina, scristianizzando una storia oggettivamente caratterizzata in bene o in male dalla cristianità, eppur la rivoluzione liberale è la più laica di tutte, anzitutto nel metodo di discussione del merito, sulle singole aree riformande.

Liberalismo partigiano significa messa in risalto delle differenze, nella lotta contro ogni metodo di oppressione. La partigianeria liberale però non lavora mai solo per una parte, ma si fa parte decisa ed al contempo mobile, da un polo ad un altro a seconda dei reali e fattivi schemi d’azione della politica. Il liberalismo si fa artefice di un destino senza predestinati, in un sentiero di politici di bottega, intenti a lavorare anche solo per portare a casa – nella casa comune della Repubblica – un risultato utile alle generalità degli individui. La partigianeria mite dei liberali preferisce portare a casa uno o due o tre certezze, piuttosto che pretendere cento, duecento, trecento vaghezze senza portare a casa alcunché.

Il liberale odierno è un realista che non smette di credere, in una rivoluzione che può essere compiuta da ogni individuo in mezzo a tutte le altre individualità sociali. Riprendendo la citazione gobettiana sopra riportata, il liberale lavora al di sopra della cronaca, senza essere profeta. Il liberale lavora per il futuro, per un’altra – ed alta – rivoluzione, che ai nostri giorni possiamo permetterci lo scomodo lusso di chiamare riformismo neo-costituzionale. In questo neo-repubblicanesimo urgono nuove garanzie sugli investimenti economici e culturali. Il nuovo antifascismo si farà lotta contro le oppressioni dei grandi debiti improduttivi imposti senza un minimo di consenso popolare, esso sarà l’antitesi rielaborativa che proverà a sciogliere l’ineluttabilità delle ipoteche esistenziali sui nuovi disagiati, offuscati e soffocati da una strana normalità disorientata.

Il nuovo antifascismo potrebbe sforzarsi di affrontare, insieme alle sempre urgenti questioni personologiche novecentesche, anche qualcosa che renda dinamico l’attuale corso evolutivo e liberazionistico della storia umana. Il neo-antifascismo potrebbe divenire un filone libertario più ampio. Il nuovo antifascismo potrebbe portare la propria lotta di liberazione tra i disagi delle tante piccole e medie partite Iva che non riescono a produrre e scambiare i beni, in quanto costrette a muoversi tra l’incudine delle resistenze ultra-burocratiche e il martello delle concorrenze sleali dei Paesi che producono a prezzi più competitivi, solo perché i lavoratori sottopagati e sfruttati generano un calo dei costi di produzione (si pensi alla Cina, o a certe aree indiane, per esempio).

Come può un italiano competere con un cinese? Il fascismo del comunismo, sopravvissuto in alcuni angoli del mondo irrispettosi dei diritti umani dei lavoratori, non deve giungere fino a noi, pervertendo l’economia meritocratica fondata sulle libertà mercatorie in leale e trasparente concorrenza. Allora ritorna l’insegnamento evocativo di Gobetti, ancora una volta: “Le nostre sono antitesi integrali”. Sono antitesi progressive, sulla via delle nuove liberazioni.

Aggiornato il 28 aprile 2021 alle ore 10:16