Reati ministeriali in Italia: tra storia, presente e visioni pan-europee

La tematica dei cosiddetti “reati ministeriali” è una tematica molto attuale e di rilievo costituzionale. È già maturo il tempo per meditare una ulteriore fase – quella europea – per la disciplina dei reati ministeriali. Si potrebbe pensare di coordinare le diverse discipline giuridiche dei Paesi membri dell’Unione europea, in materia di responsabilità penale per le persone fisiche che rivestono funzioni governative, ai fini di una maggiore efficienza e solidità delle strutture istituzionali, operanti nei diversi formanti statuali di quello che un domani potrebbe essere lo spazio politico federale degli Stati Uniti d’Europa. In Europa occorre essere compatti in materia, dato che la disciplina sui reati ministeriali impatta anche sul rapporto tra le diversi anime funzionali e tra i diversi poteri di ogni Stato, finendo così per incidere sostanzialmente sulla forma di governo.

Per poter pensare a una eventuale riforma progressiva e garantista del sistema giuridico in materia di responsabilità penale dei ministri e del presidente del Consiglio dei ministri, occorre studiare anzitutto le radici storiche dei reati ministeriali e, più in generale, della cosiddetta giustizia politica. Questo tipo di responsabilità, in ogni epoca storica, suscita interrogativi e apre delicati dibattiti sul significato giuridico dei princìpi di uguaglianza, da un lato, e di separazione dei poteri dello Stato, dall’altro lato. La tematica dei reati ministeriali si inserisce nella nota espressione giustizia politica perché le norme sulla responsabilità ministeriale possono incidere, in modo critico, sugli stessi equilibri esistenti tra i distinti e separati poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

In Italia la Costituzione repubblicana del 1948, nella parte in cui stabilisce le regole generali sul funzionamento degli organi del potere esecutivo, ed in particolare nell’articolo 95, comma secondo, sancisce che i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei singoli ministeri. Parlando di responsabilità penale dei Ministri, così, occorre chiedersi cosa siano i reati ministeriali e quali siano le ragioni situate alla base delle procedure formali prescritte per il loro accertamento. I reati ministeriali sono reati commessi dai membri del potere esecutivo. Alcuni ordinamenti giuridici sottopongono questi reati a forme di giustizia speciale, di tipo politico o misto.

Mentre in Francia dal 1993 questi reati particolari sono sottoposti alla giurisdizione della Corte di giustizia della Repubblica, composta da dodici parlamentari e tre magistrati, in Italia l’articolo 96 della Costituzione repubblicana attualmente sancisce quanto segue:

“Il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”. La procedura da seguire per i reati ministeriali è disciplinata dalla legge di revisione costituzionale numero 1 del 1989, e dalla legge numero 219 del medesimo anno.

Un eventuale caso riguardante i crimini dei Ministri nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali sarebbe di competenza del Tribunale ordinario, che in queste circostanze opererebbe come “Tribunale dei ministri”. L’espressione “Tribunale dei ministri” non è presente nei testi normativi, ma è utilizzata per consuetudine in ragione della particolare composizione dell’organo giurisdizionale investito di una questione legale che coinvolge un ministro, o il presidente del Consiglio dei ministri, a causa dello svolgimento delle proprie attività istituzionali. Questo tribunale non è un tribunale speciale, ma è qualificabile come una sezione specializzata del tribunale ordinario. Esso è costituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio, in ragione del luogo di commissione del reato ministeriale.

È ammirabile lo sforzo di riformare la materia dei reati ministeriali, illuminandola con il principio fondamentale di uguaglianza formale di fronte alla legge per tutti i cittadini. Si è cercato di rendere il più possibile ordinaria la procedura di accertamento e persecuzione dei reati commessi dai ministri, che sono altissimi operatori del potere governativo e politico dello Stato. L’evoluzione, tuttavia, non va mai in ferie, e nemmeno in cassa integrazione: occorre meditare sempre, per non dismettere mai le riformistiche tensioni evolutive, plurime e pluralisticamente fondate, nelle dialettiche della vita civile di un Paese. C’è chi critica la conformazione attuale degli equilibri tra i diversi poteri statuali. Una parte delle critiche proviene dalle dottrine conservatrici, che vorrebbero mantenere l’atto governativo come atto assolutamente insindacabile dal potere giudiziario. Un’altra parte delle critiche, invece, proviene dalle correnti di pensiero che vogliono una legalità rigorosamente e meccanicamente connessa al valore dell’eguaglianza, ed in ragione di ciò propongono l’eliminazione del filtro dell’autorizzazione parlamentare.

Le dottrine più in linea con l’attuale assetto costituzionale auspicano il mantenimento dell’attuale regime giuridico in materia, perché esse sono preoccupate per gli eventuali attacchi che i ministri potrebbero ricevere dai propri avversari politici, attraverso il normale strumento giudiziario. Le posizioni più moderate, pertanto, restano fiduciose sull’utilizzo del buon senso da parte dei ministri, con la loro facoltà di rinunciare o non rinunciare al trattamento speciale ad essi costituzionalmente riservato. Occorre sottolineare che il buon senso non deve essere automaticamente e necessariamente collegato a un atteggiamento di rinuncia al filtro parlamentare. Ogni fatto ed ogni situazione umana è diversa dalle altre. La storia ce lo insegna. Se si studia l’ordinamento giuridico italiano precedente all’età costituzionale repubblicana, si può osservare una più radicale separazione e diversificazione dei procedimenti a carico dei ministri, rispetto alle regole processuali ordinarie prescritte per tutti gli altri cittadini.

Lo Statuto albertino, concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia per il Regno di Sardegna e poi divenuto la Carta costituzionale del Regno d’Italia a partire dal 1861 in seguito all’unificazione politica, attribuiva la funzione di giudicare i delitti ministeriali al Senato del Regno costituito in Alta Corte di Giustizia.

L’articolo 36 dello Statuto della monarchia costituzionale italiana sanciva quanto segue: “Il Senato è costituito in Alta Corte di Giustizia con decreto del Re per giudicare dei crimini di alto tradimento, e di attentato alla sicurezza dello Stato, e per giudicare i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati. In questi casi il Senato non è capo politico. Esso non può occuparsi se non degli affari giudiziari, per cui fu convocato, sotto pena di nullità”. L’articolo 47 dello Statuto albertino, poi, prescriveva che la Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re, e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia.

Si aveva un regime giuridico in cui la Camera dei deputati, elettiva e composta da deputati scelti dai Collegi elettorali secondo le leggi dell’epoca, era competente per l’accusa dei ministri. Al Senato di nomina regia, costituito in Alta Corte di Giustizia, invece, spettava il compito di giudicare i ministri sulla base delle imputazioni della Camera. Da questa breve esposizione sugli strumenti processuali di esercizio della giustizia sulla politica, potrebbero essere tratte alcune meditazioni realistiche, nonché alcune considerazioni generali guardando alla pratica applicativa della tradizione dello Stato liberale. Si può dare già per certa la sussistenza di un’esigenza di prudenza, nel perseguire i reati ministeriali, in ogni epoca. Questa prudenza è richiesta dalla natura stessa della delicata funzione di governo di uno Stato. Si deve tener conto da un lato dell’esigenza di evitare una politicizzazione in senso stretto dell’attività giudiziaria, e dall’altro lato dell’esigenza di garantire a tutti i cittadini il rispetto dei princìpi fondamentali della Costituzione italiana e l’indegradabilità dei diritti inalienabili della persona, senza distinzioni.

La delicata particolarità della tematica dei reati ministeriali necessita di altrettanto particolari accorgimenti procedimentali, già sul piano legislativo della loro ideazione. Più si va indietro nel tempo e più le fonti legislative ci dimostrano che le risposte processuali tendevano a creare degli organi appositi in una sorta di autodichia speciale, dunque in una giustizia autonoma e speciale. Si può notare questa tendenza istituzionale nella costituzione dell’Alta Corte di Giustizia all’interno dello stesso Senato del Regno, durante la vigenza dello Statuto albertino. Con la creazione di organi speciali, e non soltanto specializzati, e per di più anche interni al mondo politico, però, si rischiava una assolutizzazione della logica autoreferenziale di autodichia penale, contro ogni esigenza di uguaglianza davanti alla legge. I risultati di questa autodichia penale e speciale potevano dimostrarsi favorevoli o sfavorevoli per i ministri, a seconda delle correnti di volta in volta dominanti nel Senato costituito in Alta Corte di Giustizia.

In seguito, con l’avvento del costituzionalismo repubblicano nella metà del XX secolo in Italia, si è cercato di dare delle risposte più garantiste per i ministri processati. Si è cercato al contempo di costruire un sistema rispettoso del contenuto fondamentale del principio di uguaglianza davanti alla legge. La tendenza attualmente maggioritaria nelle rimeditazioni sulla procedura di accertamento e persecuzione dei reati ministeriali è quella di ideare risposte certe, e capaci di staccarsi dalla logica autoreferenziale di specialità assoluta.

Oggi, per i reati dei ministri occorre una soluzione di specialità minima necessaria, idonea a coniugare il rispetto della separazione dei poteri statuali con il cardine giuridico dell’uguaglianza tra i cittadini nel processo penale. Nulla dell’oggi può essere compreso veramente se non si parte dalle considerazioni storiche, con un metodo che studia ciascuna epoca con gli occhiali cognitivi fornitici dagli strumenti e dalle coordinate gnoseologiche di quella specifica epoca, seppur appresi e filtrati dalle consapevolezze contemporanee, ex post. Ogni considerazione sistematica sulla evoluzione storica di un istituto o di una istituzione non può prescindere da un previo studio storico-giuridico affrontato con le dovute accortezze metodologiche. La storia del diritto infatti non è mera serva di corredo del diritto vigentista, ma è una disciplina che richiede un metodo suo specifico, e che anche attraverso l’oggettivizzazione del materiale raccolto e messo a “sistema” può fungere da ausilio di coscienza, per chi vuole avere una visione critica in corsia all’interno delle istituzioni, e negli esercizi delle cittadinanze attive in politica.

Chi volesse approfondire alcuni profili inerenti alla questione della giustizia politica italiana, in una prospettiva primariamente attenta alle radici storiche, può leggere anzitutto le pagine delle autorevoli dottrine pubblicistiche tradizionali in materia, ma può anche leggere due miei saggi, frutto di un lungo e modesto lavoro di ricerca accademica. Il primo si intitola “L’Alta Corte di Giustizia. Sulla funzione giurisdizionale del Senato in epoca statutaria”, ed è stato pubblicato nel paper 7 del numero 18/2020 della Rivista accademica internazionale “Historia et ius” sul sito www.historiaetius.eu. Il secondo saggio, edito nel 2020 ed intitolato “Perspectives historiques sur la “justice politique”: la responsabilité pénale des ministres en Italie”, è stato pubblicato all’interno di un’opera collettanea della “Roma Tre Press”, sul sito romatrepress.uniroma3.it. Il primo saggio è il frutto di una intensa ricerca nell’Archivio Storico del Senato e nella Biblioteca “Spadolini” del Senato della Repubblica, e non solo, a Roma. Il secondo saggio è frutto di un mio intervento in Francia, presso la Facoltà di Diritto e Scienze Sociali dell’Università di Poitiers, in occasione di un gemellaggio scientifico tra i giovani giuristi dell’Università Roma Tre e i giuristi dell’Università di Poitiers, il 26 settembre 2019.

La responsabilità ministeriale e la complessa questione della c.d. giustizia politica (quindi della giustizia in politica e non della politica sulla politica stessa, anzitutto ove questa sia di bassa qualità nonché di scarse consapevolezze), potrebbero rappresentare dei punti evolutivi del sistema politico-istituzionale. Responsabilità ministeriale da riformare e giustizia politica potrebbero assumere le sembianze di nuovi versanti progressisti per lo Stato italiano di diritto liberal-garantista. Ed anche le sembianze di una nuova frontiera federale, per le istituzioni pan-europee del domani. D’altronde, occorrerebbe superare ogni stanco bipolarismo odierno, che minimizza la questione identitaria eurounionale riducendola a questione di tifoserie pro e contro l’europeizzazione delle statualità. Meritiamo di più, meritiamo una seria evoluzione federale tra diritti sociali e libertà.

Aggiornato il 05 luglio 2021 alle ore 10:12