Il nuovo tradimento dei chierici sta nell’abolizione della verità/1

Il “tradimento dei chierici”, cioè il tradimento della propria missione di verità e di indipendenza degli intellettuali occidentali “impegnati”, di cui scrisse Julien Benda già nel 1927, si presenta oggi in forme vecchie e nuove che, nell’insieme, sembrano raccontare la singolare vicenda della abolizione della verità e del suo stesso concetto negli ultimi cento anni.

Ai tempi di Benda e per gran parte del Novecento per tradimento dei chierici si è inteso significare la “falsificazione della verità” in nome dei grandi valori della nazione, della Patria, della classe o del Partito, fatti assurgere da quei chierici – secondo la formulazione di Dario Antiseri – al rango sacrale di “assoluti terrestri”. Questi ultimi erano destinati a colmare il vuoto di senso dell’esistenza e della storia, vissuto– secondo Luciano Pellicani – “come uno choc” soprattutto dagli intellettuali (i chierici) rimasti “orfani di Dio” dopo la “morte di Dio”, certificata a fine Ottocento da Friedrich Nietzsche che la aveva attribuita proprio ai filosofi. Oggi il tradimento dei chierici, pur conservando molte delle vecchie caratteristiche esistenziali e volontaristiche, consiste soprattutto nella negazione della stessa nozione di verità e nella conseguente negazione della stessa nozione di valore ad opera degli stessi intellettuali divenuti, dopo la caduta del comunismo, anche “orfani della rivoluzione”, oltre che di Dio. È un completamento del nichilismo non tanto come filosofia, ma come processo storico oggettivo: la morte della verità e del valore segue di necessità la morte di Dio e dei suoi sostituti, anch’essi metafore della Verità e del Valore.

L’oblio di Benedetto Croce

Benedetto Croce, che recensì favorevolmente il libro di Benda, non cessò mai di criticare aspramente tutte le “filosofie della prassi”, gentiliane o marxiste che fossero, perché non distinguevano pensiero e azione, confondevano il vero con l’utile e identificavano la moralità e quindi la libertà con lo Stato (che per Croce era solo “forma elementare ed angusta della vita pratica”) conferendo a quest’ultimo attributi etici e religiosi, con il risultato di rendere illimitato il potere statale e di schiacciare le libertà mettendole alla mercé di un Governo divino. Criticò in particolare quegli intellettuali che usavano “falsificare la verità” con il pretesto di “servire la patria o il partito” (e che in realtà servivano soprattutto se stessi). Croce in sostanza vedeva nel tradimento degli intellettuali della verità il prodromo dello Stato etico e del totalitarismo, comunque motivato.

Non a caso, il primo editoriale di Palmiro Togliatti dopo il suo ritorno in Italia sul primo numero del settimanale “Rinascita” del giugno del 1944 fu un duro attacco anche personale a Benedetto Croce. In quello scritto, Togliatti insinuava che questi fosse stato risparmiato e tollerato dal regime fascista grazie a uno “scambio” e come ricompensa per i suoi giudizi critici sul marxismo e sul comunismo. Croce reagì energicamente e Togliatti fu costretto a pubblicare una rettifica sulla stessa rivista. Ma ormai il suo segnale, indirizzato a tutti gli uomini di cultura italiani, era stato recepito. Croce, la sua filosofia critica della “distinzione” tra vero e utile, dell’autonomia della cultura dalla politica (che non escludeva reciproche interferenze e contaminazioni) e la sua religione della libertà dovevano essere estirpati, rimossi e dimenticati dalla cultura nazionale. Dovevano essere sostituiti dalla religione del partito e della madrepatria sovietica del socialismo reale; e cioè dalla realizzazione del gramsciano intellettuale organico che doveva essere militarizzato e usato, come denunciò persino l’allora filocomunista Elio Vittorini, per “suonare il piffero della rivoluzione” in Occidente. E così fu.

Molti intellettuali italiani aderirono all’appello di Togliatti, perché questi prometteva loro un ruolo sociale e forse anche politico. Lo fecero anche molti intellettuali ex fascisti che trovarono più breve l’approdo al comunismo che quello al liberalismo. Nelle scuole, nelle università, nei libri e sui giornali Croce fu avversato in ogni modo e soprattutto ignorato dagli intellettuali gramsciani e togliattiani divenuti egemoni. Le giovani generazioni di studenti furono invitate a ignorare i suoi scritti e la sua figura di grande intellettuale liberale e di testimone di moralità e di libertà durante il regime fascista. L’aggettivo “crociano” divenne un epiteto e un sinonimo di vecchio arnese da lasciare in soffitta. La denigrazione e l’oblio di Croce serviva anche a identificare tutto l’antifascismo con la resistenza dei partigiani comunisti e a sancire che l’anticomunismo e persino il disimpegno degli intellettuali fosse una specie di crimine: la cultura o era “impegnata” a sinistra e filocomunista o non era cultura. L’oblio di Croce, innescato nel giugno del 1944, con le calunnie di Togliatti è una delle manifestazioni più rilevanti del tradimento degli intellettuali italiani a metà del Novecento.

La verità e la Rivoluzione

La tentazione dell’autoscioglimento degli intellettuali nella prassi trasformatrice della realtà affondava e affonda le sue radici nella pretesa prometeica e demiurgica contenuta nella famosa XI tesi di Karl Marx a Ludwig Feuerbach: “I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi. Ora si tratta di trasformarlo. Frase emblematica riprodotta anche sulla tomba di Marx ed epitome costante del tradimento degli intellettuali di ieri e di oggi.

Ne seguì la divinizzazione leniniana e gramsciana del Partito, “moderno principe”, arbitro in terra del vero e del falso e del bene e del male. Ne seguì la teorizzazione leniniana del “rivoluzionario di professione”, quella staliniana dei “compagni di strada” e quella gramsciana collaterale dell’intellettuale organico. L’intellettuale da individuo indipendente e libero divenne soggetto dipendente e collettivo. Era un tradimento di se stessi e un suicidio dell’intellettuale, come figura nata con le Università medievali e con l’Umanesimo rinascimentale e consolidatasi con l’Illuminismo ed il suo “sapere aude”. Ma non fu vissuta come tradimento dai protagonisti proprio per gli equivoci attinenti alla questione della verità.

L’ipotesi marxista, leninista e gramsciana (comune a molti intellettuali della prima parte del Novecento) era basata sull’assunto che “la verità è sempre rivoluzionaria”, corollario della presunta “verità e necessità delle ineluttabili leggi della storia”. Tuttavia, anche quando quella equazione già stava vacillando, a metà degli anni Settanta del Novecento, Gian Carlo Pajetta poteva confessare a Leonardo Sciascia: “Tra la verità e la rivoluzione io scelgo sempre la rivoluzione”. E cioè il Partito. Pajetta rivelava con quelle parole la malafede di molti comunisti e soprattutto toglieva la maschera a professori, scrittori, giornalisti e registi compagni di strada: essi continuavano a raccontare come verità la favola bella della rivoluzione pur sapendo non solo che era una favola, ma anche che non era affatto bella, ma orrenda.

Un colpo di genio: abolire la nozione stessa di verità

Fu allora che gli intellettuali “impegnati”, non solo in Italia, ebbero un colpo di genio: se la verità non si identificava più con la rivoluzione, era opportuno abolire la verità, demolendo e abolendo la nozione stessa di verità. È significativo il fatto che molti di quei chierici comunisti e compagni di strada che per decenni avevano propagandato la verità assoluta delle necessarie ed ineluttabili leggi della storia, all’apparir del vero reale, cioè del catastrofico abbaglio del marxismo e del delirio collettivo che era stato il mito rivoluzionario, scoprirono allora la “morte della verità” in generale: così anche la vecchia favola poteva conservare una qualche verità nei meandri della coscienza.

Riabilitarono allora le virtù progressive di Friedrich Nietzsche, (promuovendo anche una “Nietzsche renaissance”) fino allora considerato un irrazionalista reazionario antesignano di Adolf Hitler e della “bestia bionda” nazista; anche il reazionario Martin Heidegger in precedenza considerato un manutengolo del nazismo fu rivalutato. Scoprirono improvvisamente la genialità “progressiva” delle tesi relativiste degli eredi ed epigoni “borghesi” del post-modernismo che fino ad allora essi avevano ridicolizzato, perché sconfessavano la “narrazionemarxista e non solo quella capitalista, borghese e liberale occidentale. Ora quelle tesi relativiste erano divenute utili per minare, come egualmente falsa, la seconda, permettendo loro di continuare così la loro lotta di sempre all’Occidente liberale.

Divennero allora lettori e diffusori assidui nelle aule universitarie dei testi del post-strutturalista Michel Foucault forse soprattutto perché denunciava gli universi concentrazionari occidentali e sosteneva tra l’altro che la verità, la cultura e la stessa scienza (occidentali) non sarebbero che funzione del potere e addirittura “violenzamascherata e interiorizzata. I lettori e gli studenti non potevano che dedurne che è meglio tenersi alla larga dalla cultura occidentale e dalla scienza borghese. Qualcuno ne deduceva anche che forse l’ignoranza totale era più encomiabile e pacifica della sapienza e della scienza. Scoprirono le raffinate tecniche decostruzioniste di Jacques Derrida, che decostruiva – guarda caso – solo i testi e i costumi della cultura occidentale. Accolsero con grande favore soprattutto l’emotivismo di Richard Rorty che alla ricerca “inutile” della verità anteponeva la solidarietà e assegnava alla cultura il compito “edificante” di “alleviare le sofferenze umane”.

Anche il “pensiero debole” di Gianni Vattimo rendeva un servizio analogo, dato che predicava un nichilismo vagamente cristiano per cui, data la presunta morte della verità, in quanto “metafisica” corrispondenza ai fatti e ai dati di fatto, alla verità – anche quella fisica – conveniva anteporre e sostituire l’amore universale nella forma di una “epistemologia del dialogo sociale ed interculturale” (vedi Gianni Vattimo, “Addio alla verità”, Meltemi, 2009).

In questo relativismo assoluto, in questo emotivismo e in questo pensiero debole stanno le origini concettuali della nuova ideologia del politicamente corretto che nel suo stesso concetto afferma, in sostanza, che “non è vero quel che è vero, ma quello che è politicamente corretto”, e cioè utile, opportuno, conveniente, edificante e soprattutto “non discriminatorio” (Continua).

Aggiornato il 08 ottobre 2021 alle ore 09:26