Ue, 16 anni dopo

Di solito non accade mai che un giornale ripubblichi tal quale un suo articolo, anche se scritto sedici anni prima. I temi dibattuti oggi non sono gli stessi di cui si dibatteva tanti anni fa. L’euro è una realtà consolidata, l’Unione Europea è una realtà accettata da tutti ma non si può negare che qualche volta queste realtà ci appaiono come colossi dai piedi di argilla. Che fare allora? Per ogni padre di famiglia, per ogni imprenditore, per chiunque gestisce qualcosa c’è il momento della programmazione, quello della gestione e quello del controllo. Per cui non appare peregrino, quando si fa il controllo, riesaminare il momento della partenza o qualche momento topico da cui far partire ogni riflessione.

L’articolo che segue è stato pubblicato nel 2006 ed evidenzia alcune criticità che pare non sembrano risolte: il Pil italiano negli ultimi anni è cresciuto meno di quello degli altri Paesi europei e la burocrazia è considerata da molti davvero pletorica.

A onor del vero, il titolo di allora, che a qualcuno oggi potrebbe sembrare profetico, non fu scelto dall’autore ma dal titolista del giornale. Senza voler esprimere nessun giudizio sull’ex presidente del Consiglio, però possiamo dire che questo articolo di tanti anni fa, in fondo, risponde a un inquietante interrogativo che recentemente Massimo D’Alema ha posto alla comunità politica: “Ma questi con chi lo prendono il caffè la mattina?”.

Edizione numero 160 del 21 luglio 2006

Maastricht si commemora come il funerale dell’Europa

di Antonio Perrone

Sono passati quasi quindici anni dalla fissazione dei parametri di Maastricht e quasi cinque anni dall’introduzione dell’euro. Questo evento epocale richiede una commemorazione e qualche commento. Da sempre, uno dei primi atti, successivi alla creazione di uno Stato unitario e sovrano, è stato quello di battere una moneta comune. Essa diventa simbolo di unità nazionale e strumento efficace per lo svolgimento di una politica economica coerente. La creazione di una moneta unica, o quanto meno di una moneta strettamente collegata ad altre monete, non è nuova e la storia conosce illustri precedenti. Con gli accordi di Bretton Woods, del 1944, entrati in vigore nel 1946, gli Stati si impegnarono ad adottare una politica monetaria che mantenesse il tasso di cambio della propria moneta all’interno di un valore fisso, con un oscillazione consentita dell’uno per cento commisurato sulla quotazione dell’oro. I più anziani di noi ricordano il dollaro scambiato per anni a 625 lire. Al Fondo Monetario Internazionale fu assegnato il compito di compensare eventuali problemi temporanei di sforamento dei bilanci. È bene ricordare che il sistema collassò nel 1971 quando gli Stati Uniti denunciarono l’accordo. Le giustificazioni per sostenere la stabilità dei cambi furono allora non dissimili da quelli pronunciati in questi anni dagli estimatori dell’euro.

Nel 1926, constatato che il valore della lira si era ridotto a circa il 20 per cento rispetto al valore di anteguerra, Benito Mussolini impose il raggiungimento della Quota Novanta ovvero del cambio fisso a 90 lire con la sterlina inglese. Rivalutazione e stabilizzazione della lira furono raggiunti attraverso il restringimento del credito. Allora la penuria di denaro circolante causò una riduzione della produzione ed un abbassamento dei salari. Si dirà che la moneta è comunque unica all’interno di uno stesso Stato. Ma anche questo non è sempre vero. Per lunghi anni, i contratti collettivi nazionali di lavoro hanno previsto differenti zone salariali anche a fronte di uguali mansioni. Parametri diversi facevano sì che la stessa mansione nel nostro Mezzogiorno fosse retribuita meno rispetto al Nord. Questo non si traduceva in un tenore di vita peggiore per i lavoratori perché il costo della vita in quelle aree era minore. Il differenziale nel costo del lavoro compensava la lontananza dai mercati: il costo di un chiodo prodotto al Sud incorporava minori costi del lavoro e maggiori costi di trasporto. Questo lo rendeva competitivo rispetto al chiodo prodotto al Nord con maggiori costi del lavoro ma vicino ai mercati di consumo.

Introno al ’68 il sindacato si batté per l’abolizione delle gabbie salariali e si pervenne a contratti unici nazionali e quindi ad una sorta di moneta unica nazionale. Come più volte evidenziato, la soluzione adottata non ha portato un riequilibrio del divario Nord Sud. A quindici anni dalla fissazione dei parametri di Maastricht ed a cinque dall’introduzione dell’euro, resta ora da chiedersi se le esperienze qui illustrate possano illuminare in una qualche maniera l’attuale situazione dell’eurozona. Il quesito è se l’euro somiglia più ad una ambizione politica, come è stato per Bretton Woods, per Quota Novanta e per l’abolizione delle zone salariali o se somiglia più ad una moneta statale. Si può facilmente ritenere che la risposta a questo quesito sia di natura quantitativa: probabilmente l’euro è per un quarantacinquesimo una moneta paragonabile ad una moneta statale ed è, per quarantaquattro quarantacinquesimi, un ambizione politica Questa affermazione è suffragata dal fatto che – come è noto - i bilanci nazionali, attraverso il prelievo fiscale, assorbono circa il 45 per cento del reddito nazionale mentre il bilancio comunitario assorbe poco più dell’uno per cento dell’intero reddito comunitario. In sostanza il Sistema Unione Europea regolamenta con parametri rigidi tutta quella parte dell’economia continentale che ha aderito all’Euro mentre, di fatto, può intervenire direttamente con proprie risorse in maniera estremamente limitata.

È come se ad contadino si chiedesse di seminare un terreno enorme e però poi gli si potesse affidare solo un cucchiaino di semi. Questo gigante senza braccio operativo, come si è detto, ha comunque fissato dei parametri molto rigidi. Ed è qui che si è creato il vero equivoco anzi una vera inversione concettuale. Infatti, i manuali di economia ci hanno insegnato che un’economia si può considerare sana quando il debito pubblico è pari al tre per cento del Pil. Al contrario gli eurocrati – che poi hanno fissato i parametri di Maastricht – hanno capito che, per avere un’economia sana, il debito pubblico dei singoli paesi deve essere mantenuto entro il tre per cento del Pil. In sostanza i burocrati, e gli intellettuali hanno fatto come quel medico che, avendo letto sul trattato di fisiologia che il corpo umano deve avere una temperatura di trentasette gradi, prescrisse al malato con la febbre a 42 gradi di immergersi in una vasca da bagno di acqua gelata. Il risultato di queste politiche va misurato senza emotività ma con dati alla mano. Ognuno di noi può visitare il sito del Fondo Monetario Internazionale e del Bureau International du Travail per vedere l’indice di crescita del Pil ed il tasso di disoccupazione nei paesi industriali che non appartengono all’Unione Europea, nei paesi che appartengono all’Unione Europea ma non hanno adottato l’euro e nei paesi che appartengono all’Unione Europea e che hanno adottato l’Euro.

Il dato non appare favorevole a Maastricht. Ad esempio, fra i Paesi dell’euro, la Francia ha una crescita del Pil pari al 2 per cento, la Germania 1,3 e l’Inghilterra che è fuori è al 2,5 mentre fuori dall’Europa gli Stati Uniti sono al 3,4 ed il Giappone a 2,8. Come si possa essere dimenticata la lezione di Keynes e della crisi del 1929, come tutto ciò sia potuto accadere rimane un mistero. Un’ipotesi si può fare ed e quella che tutto ciò è avvenuto quando i tecnocrati si sono sostituiti ai politici. La scelta del personale politico amministrativo fatta non da chi vota ma da chi realmente detiene il potere ha privilegiato i tecnocrati allevati come polli di batterie nelle grandes écoles, negli institute of technology nelle school of economics. Nell’Italia del miracolo economico, quella favolosa e favoleggiata epoca del Secondo dopoguerra, la politica aveva mille terminali per comprendere che un giorno si poteva spendere qualcosa di più per creare occupazione, che il giorno dopo un po’ di disoccupazione sarebbe stata tollerabile pur di risparmiare qualcosa nel bilancio dello stato, che il terzo giorno si poteva stampare un po’ più di cartamoneta rischiando un po’ di inflazione per fare ripartire i consumi e che il quarto giorno si poteva svalutare un po’ la moneta per facilitare le esportazioni pur pagando un pochino di più le materie prime. I terminali, saldamente legati al territorio, erano migliaia. Erano i politici locali che frequentavano i Don Camillo che conoscevano a menadito la situazione delle famiglie nelle parrocchie.

Erano i Peppone che nelle Case del Popolo discorrevano per ore ed ore con la gente, e sapevano del figlio partito militare e della figlia mandata in città a fare la segretaria, perché in paese non c’era lavoro. Erano i politici locali, con le loro giacche di lana cotta ed i pantaloni di pelle di cervo, che nelle stube dell’Alto Adige, di fronte ad un piatto di speck, castagne arrosto sulle braci di carbone vegetale ed un bel bicchiere di vino, discutevano del prezzo delle mele e dell’emigrazione stagionale. Erano i maggiorenti del sud che alle sei di sera, finita la contr’ora, indossato l’abito di lino bianco, il panama e le scarpe Duilio gialle e bianche, sorseggiando al bar del paese una bella granita di caffè con panna e brioche, discutevano ore ed ore del mercato del vino e del grano, dell’emigrazione e delle necessità della gente comune e del paese. Ora tutto questo non c’è più, ci sono i tecnocrati che hanno confuso il sintomo con il rimedio: “per abbassare la temperatura del corpo febbricitante basta raffreddare il corpo in una bella vasca da bagno”.

Grazie alle loro grandi capacità mnemoniche sono stati i primi della classe, le loro famiglie borghesi li hanno mandati a studiare nelle grandi scuole e loro hanno creduto che, per conoscere il mondo, bastasse leggere le statistiche dietro la scrivania. Non hanno mai sospettato che per conoscere il mondo occorreva prendere l’autobus per Lentini, sedersi su una scoppiettante littorina delle Ferrovie Calabro Lucane o mangiarsi un panino in piedi in un bar vicino ad un grande stabilimento industriale. Non hanno mai sospettato che per conoscere il mondo occorre ascoltare il contadino, l’operaio, l’artigiano e la maestrina mentre infreddoliti vanno al lavoro. Non li hanno ascoltati nemmeno quando vanno in pizzeria ed hanno più voglia di aprirsi e di confidarsi. Forse solo così avrebbero potuto capire che i parametri economici sono parametri mentre gli uomini sono affetti, pulsioni, sentimenti, necessità, ambizioni.

Aggiornato il 25 novembre 2022 alle ore 13:42