Riforma Cartabia: bicchiere mezzo pieno

Tra le innovazioni del decreto 150/2022 c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi a un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così all’effetto dissuasorio di essa), la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.

Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute le disposizioni che consentano una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia, sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati. Vediamo perché.

Scriveva Georg Wilhelm Friedrich Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità, cosicché né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né gli individui vivono solo per questo senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.

Più “tecnicamente”, da giurista, Rudolf von Jhering collegava l’interesse particolare al generale attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione che, come Francesco Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare. Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Der Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, un’avvertenza preliminare di Benedetto Croce sorprendentemente ne sottolineava l’alto valore etico. E scriveva: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: in Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica”. Poi proseguiva, sostenendo che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.

La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, che al tempo stesso si risolve nel realizzare quello oggettivo, è che il diritto non è applicato. Per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè, nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, è confinato in un iperuranio normativo senza un demiurgo che lo porti in terra. Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante, probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) – e così l’oggettivazione – lascerà a desiderare.

Ciò premesso, quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare l’efficacia (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono. Di per sé, che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri). Ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma fa aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare, per i rei dotati di disponibilità finanziarie.

C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte”. E prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde si dimezza la durata degli stessi, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’Amministrazione della giustizia penale sia migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare. Tuttavia, la funzione della giustizia penale, specialmente nell’assicurare l’ordine sociale, non ci guadagna un granché. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non sia il caso di intonare peana né di confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

Aggiornato il 17 gennaio 2023 alle ore 12:11