Autonomia differenziata, intervista a Fabrizio Ferrandelli

Con il recente via libera in Consiglio dei ministri inizia ufficialmente il percorso del Disegno di legge per l’attuazione dell’Autonomia differenziata. La visione alla base di tale proposta, prevista dall’attuale esecutivo, è che le Regioni a statuto ordinario possano chiedere di avere competenza esclusiva su alcune materie. Dossier importanti per le Regioni quali l’istruzione, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, il commercio estero, la gestione di porti e aeroporti, le reti di trasporti ed energetiche. In passato, ci avevano provato già Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna attraverso specifici accordi con il Governo. Sostanzialmente, l’idea dell’approvazione di una legge sull’autonomia differenziata, nelle intenzioni dei promotori, serve a semplificare e uniformare i passaggi per tutte le Regioni. Le Regioni potranno inviare al Governo le proprie proposte sulle materie per cui chiedere la competenza esclusiva e un grande dibattito è in corso anche sulle prospettive di trattenimento fiscale che non sarebbero più distribuite al livello nazionale. Una dettagliata analisi di tale proposta è in corso da parte del responsabile nazionale per le autonomie di Azione, Fabrizio Ferrandelli, già autorevole rappresentante di Più Europa e già candidato a sindaco della Città di Palermo. Nel tentativo di comprendere l’attualità della proposta sull’autonomia differenziata, raccogliamo l’opinione e le analisi di Fabrizio Ferrandelli.

Una riforma destinata a “spaccare il Paese” e che rischia di diventare un boomerang per il Nord secondo le opposizioni. Una soluzione per tagliare gli sprechi e valorizzare i territori, a detta del governo. Cosa prevedete dall’attuazione dell’autonomia differenziata?
Il Ddl approvato ieri dal Cdm è solamente una mossa elettorale, una scatola vuota ma ben impacchettata per fare un favore alla Lega in vista del voto in Lombardia. Infatti, i nodi da sciogliere, se si vogliono affrontare le questioni dirimenti con serietà e nell’interesse del Paese, restano enormi. Primo fra tutti la questione della definizione dei Lep (Livelli essenziali di prestazione).

Le Regioni possono trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive. Quale idea avete in rapporto all’attuazione dell’autonomia e il gettito fiscale?
Nel Ddl non ci sono riferimenti alle risorse con cui tutte le Regioni, soprattutto quelle più in difficoltà, potranno essere in grado di sostenere il costo delle nuove competenze, cioè il costo per erogare i servizi ai cittadini e al territorio. Solo chi ha già maggiori risorse, le Regioni più ricche del Nord, potrà attuare maggiori livelli di autonomia, lasciando sempre più indietro la maggior parte del Paese che vive in maggior difficoltà. Il presidente dei costituzionalisti Sandro Staiano ha tagliato a corto nelle scorse ore definendo questa riforma come uno strumento che spaccherebbe il paese, in quanto il nodo delle risorse che dovrebbe essere definito in via preliminare è così di fatto slegato dal concetto stesso di perequazione dalla spesa storica dei territori. Inoltre stabilire i Lep con Dpcm marginalizzerebbe ancora di più le Camere, andando fuori dalla logica del diritto costituzionale. La definizione dei Lep infatti spetta per Costituzione alla legge dello Stato. Prima si devono stabilire le regole del gioco (in questo caso i Lep), poi si comincia a giocare, non viceversa. Una corretta determinazione dei Lep parte dall’individuazione dei diritti civili e sociali che si intendono garantire su tutto il territorio nazionale, prevalentemente in quattro ambiti: diritti connessi all’istruzione ed alla formazione; diritti connessi alla salute; diritti connessi all’assistenza sociale; diritti connessi alla mobilità e al trasporto. Non è tuttavia sufficiente il riferimento in astratto a tali diritti, bensì, occorre individuare puntualmente le prestazioni che si ritiene li possano soddisfare. È questo il compito del legislatore: precisare quali siano le prestazioni afferenti alla compiuta realizzazione di un determinato diritto civile e sociale, chi sia il soggetto tenuto ad erogarla, quale debba essere il livello ritenuto come minimo o essenziale di quella data prestazione e quale debba essere il suo costo standard. Un esempio: l’89 per cento dei comuni dell’Emilia Romagna offrono servizi per la prima infanzia (asili nido) nel 2019, mentre in Calabria nello stesso anno sono il 22,8 per cento. Questa riforma conduce ad un ulteriore ridimensionamento dell’offerta scolastica, sanitaria e conseguentemente occupazionale nelle regioni del Sud.

Pensiamo alla sanità: in Italia ci sono veri e propri flussi migratori sanitari. Se dal Sud c’è un costante flusso di pazienti che vanno negli ospedali del Nord, e non viceversa, questo cosa ci dice rispetto ai Lep?
Proprio in queste ore Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe ha diffuso un report dal quale si evince che la richiesta di maggiori autonomie viene proprio dalle Regioni che fanno registrare le migliori performance in sanità. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie significherebbe estendere “inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali e in particolare il gap strutturale Nord-Sud che alimenta un’imponente mobilità sanitaria in direzione Sud-Nord”. Per questo la Fondazione Gimbe invita il Governo “a mettere da parte posizioni sbrigative” e propone “di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie”. Cosa aggiungere ancora?

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha sottolineato che la proposta: “non deve essere un tema di divisione del Paese”. Vi è la possibilità di un accordo virtuoso e propositivo per la nostra Penisola?
Condivido l’allarme lanciato da Bonomi. L’Italia è il Paese europeo con il maggior livello di sperequazione tra i territori, tra le sue Regioni! Il problema del nostro Paese, fin dalla sua unità, è la riduzione dei divari, delle sperequazioni, soprattutto Nord-Sud e rispetto all’insularità di alcune regioni. Problema atavico, tuttora irrisolto, che ruota intorno ad una spesa pubblica iniqua a sfavore delle Regioni meridionali, su tutte le politiche, dalla sanità (numero di posti letto), alle infrastrutture (idriche, scolastiche), ai trasporti (aerei, ferroviari, stradali e autostradali). Invece di aggredire con forza questo problema, il Governo nazionalista solo a parole apre le porte ad un salto in avanti dei territori più ricchi. Noi non siamo in linea di principio contro riforme dell’assetto istituzionale attuale del Paese, a patto che siano migliorative e che salvaguardino i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Tra questi, in primis, quelli stabiliti dall’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La riforma del Ministro Calderoli e del Governo Meloni va proprio a ledere tali principi fondamentali. Parliamo di autonomia, ma solo se è una “autonomia costituzionale”! Anzi mi spingerei proprio a dire che proponiamo una autonomia Differente più che differenziata. Una autonomia egualitaria, unitaria, solidale.

Aggiornato il 04 febbraio 2023 alle ore 13:08