Il cambiamento climatico entra nella Corte di Strasburgo

La Corte europea dei diritti umani condanna la Svizzera per non aver affrontato la questione climatica.

La sentenza 9 aprile 2024 della Corte europea dei diritti umani in composizione di Grande Camera ex articolo 30 Legge del 4 agosto 1955, numero 843 concerne il tema relativo agli effetti del cambiamento climatico sul diritto al rispetto della vita individuale, della salute e del benessere ex articolo 8 della Convenzione. La sentenza segna un cambiamento istituzionale di portata straordinaria nei rapporti tra gli Stati d’Europa che hanno ratificato la Convenzione e l’organo giurisdizionale che ha competenza su tutte le questioni concernenti la sua interpretazione e applicazione (articolo 32, Legge del 4 agosto 1955, numero 848, di ratifica ed esecuzione della Convenzione). Su ricorso di un’associazione femminile svizzera di donne anziane – KlimaSeniorinnen Schweiz – preoccupate per le conseguenze del riscaldamento globale sulle loro condizioni di vita e salute, la Corte ha condannato la Confederazione svizzera per violazione dell’articolo 8 e dell’articolo 6 § 1, che contempla il diritto di ciascuna persona a un processo equo. La prima violazione si basa sul fatto che la Svizzera sarebbe stata inadempiente ai doveri previsti dalla Convenzione riguardanti i cambiamenti climatici. La Corte ha rilevato numerose criticità nella gestione statale diretta alla limitazione dell’emissione dei gas ad effetto serra e l’ha rimproverata per non aver raggiunto gli obiettivi che in passato si era prefissa. Le autorità dello Stato non avrebbero agito tempestivamente e in modo appropriato a progettare, sviluppare e implementare la legislazione e ad adottare misure adeguate per affrontare il problema. La seconda violazione, di carattere processuale ex articolo 6 § 1, concerne la circostanza che le autorità giudiziarie svizzere non hanno ritenuto necessario esaminare il merito della questione climatica oggetto del ricorso, rifiutando di prendere in seria considerazione le stringenti prove scientifiche in ordine al cambiamento climatico.

Ho scritto sopra che la sentenza è fortemente innovativa nel delineare il rapporto tra gli Stati e gli organi di giustizia internazionali. In primo luogo, la Corte ha violato il principio di legalità, poiché ha arricchito autonomamente il catalogo dei diritti su cui ha giurisdizione. Non sussiste infatti alcun articolo della Convenzione dedicato espressamente all’ambiente. La Corte aveva assai discutibilmente in passato esteso la portata dell’articolo 8, che prevede il diritto al rispetto della vita privata e familiare, fino a ricomprendervi il diritto a vivere in un ambiente salubre. Già tale interpretazione implicava l’assunzione di un profilo interpretativo extra legem; ritenere però che la Corte abbia giurisdizione anche in ordine alla protezione da danno climatico ipotetico significa stravolgere il tenore oggettivo delle norme e i limiti dell’ermeneutica giuridica. Che l’organo giurisdizionale avente per missione la tutela dei diritti umani e il rispetto delle regole circa l’esercizio del potere degli Stati abbia violato il principio basilare che regola l’attività giudiziaria, ovvero il rigoroso obbligo di non esorbitare dai limiti della propria giurisdizione, attesta l’alto livello di arbitrarietà a cui è pervenuta la Corte europea, al punto da esercitare insieme la funzione legislativa e di governo, mascherandole sotto l’esercizio di una funzione giurisdizionale per cui non ha giurisdizione.

In secondo luogo la Corte ha compiuto un corto circuito inammissibile tra la scienza e il diritto valicando imprudentemente i limiti propri del giudizio. Il cambiamento climatico designa una serie innumerevole di fenomeni che gli scienziati di tutto il mondo e di varie tendenze stanno studiando da svariati anni, spesso pervenendo a conclusioni divergenti. Fermo restando che il clima, per quanto se ne possa sapere con riguardo alle epoche passate – sono visibili innumerevoli litografie del Settecento che mostrano prati erbosi che si estendono ove nel XIX e nel XX secolo si formarono ghiacciai – è una variabile in larga parte incontrollabile dall’uomo, è tuttavia probabile che tra le cause dei cambiamenti occorsi negli ultimi decenni sia da annoverarsi l’accumulazione nell’atmosfera dei Gas a effetto serra (Ges). Poiché tali gas sono prodotti nel mondo intero tramite le più diverse emissioni è razionalmente impossibile addebitare a un singolo Stato la responsabilità in ordine a eventi sulle cui cause, conseguenze, modalità di prevenzione e rimozione gli scienziati non hanno formulato se non ipotesi, certamente plausibili, ma non tali da consentire la loro trasposizione in norme giuridiche determinate e cogenti. Una deriva verso una sorta di totipotenza giuridica percorre la sentenza, quasi che gli Stati, per via dello strumento normativo, potessero e dovessero risolvere con urgenza e con completezza problemi che si sono via via resi più difficilmente risolvibili a causa della globalizzazione e dell’accesso a migliori condizioni di vita – grazie all’industrializzazione – di miliardi di persone prima costrette a livelli di indecorosa sopravvivenza. Né la scienza è onnisciente né il diritto è totipotente. Sia la prima che il secondo hanno insita in se stessi la possibilità dell’errore. La traduzione in un diritto umano universale di una ipotesi scientifica, pur plausibile, ma bisognosa di verifiche ulteriori, costituisce una forzatura logica inaccettabile. Se la “transizione verde” – come ammonisce la Corte – è un obbligo per tutti e, in primis, per gli Stati, stabilire per legge cause ed effetti, condannando gli Stati per le presunte loro inadempienze, è un modo troppo semplice – si potrebbe dire demagogico – di risolvere con un tratto di penna problemi sui quali occorre ascoltare non soltanto gli scienziati del clima, ma anche e soprattutto le legittime istituzioni della società civile e le sue varie articolazioni nei diversi livelli di rappresentatività. Il metodo giudiziario, nella sua “splendida” solitudine, non costituisce la via adeguata per risolvere problemi che concernono intere collettività, ciascuna con livelli diversi di criticità.

Il terzo profilo discutibile della sentenza, che si riallaccia strettamente al secondo, riguarda la complessità della politica ambientale. La complessità non concerne soltanto l’eterogeneità delle misure giuridiche che dovrebbero incidere sul cambiamento climatico a livello di ogni singolo Stato, bensì anche l’interferenza tra le misure eventualmente assunte da ciascuno Stato e gli effetti che queste determinano sulla politica ambientale e industriale degli altri Stati. V’è un tema fondamentale di diritto internazionale che attiene alla specifica sfera di influenza della politica di ciascuno Stato verso gli altri Stati. I costi e i sacrifici della cosiddetta “transizione verde” vanno allocati fra i vari Paesi con accordi internazionali che prevedano misure condivise sul fondamento di criteri di tendenziale uguaglianza, che non penalizzino in modo inaccettabile il processo di sviluppo delle nazioni povere a vantaggio del godimento di più favorevoli condizioni di vita nei Paesi ricchi. Anche a livello interno di ciascuno Stato è indispensabile il bilanciamento tra gli interessi legittimi, talora contrastanti, sussistenti in capo alle varie categorie sociali, che non possono razionalmente trovare soluzioni tramite una sentenza giudiziaria di conio universale. Determinate misure di “transizione verde” provocano costi insostenibili agli uomini e alle donne delle categorie sociali più povere e più marginali di ciascun Paese. Si pensi alle misure di transizione per scoraggiare l’uso del riscaldamento tradizionale nelle abitazioni tramite la fissazione di livelli di coibentazione termica più elevati, che importano spese che i proprietari degli appartamenti vecchi e modesti non riescono a fare. La eventuale transizione provoca l’impoverimento immediato di milioni di persone a vantaggio degli investitori e degli industriali che operano nel settore dell’innovazione. È vero che l’innovazione arreca elementi di progresso futuro per la società, ma una innovazione, senza compensazioni, che apporta disuguaglianze e discriminazioni in pregiudizio di determinate categorie, è inaccettabile nello stato sociale di diritto, quale disegnato dalla Carta costituzionale italiana negli articoli 1-3 e 29-47. La distruzione spietata degli usi civici nell’Italia postrisorgimentale fu funzionale al processo di accumulazione capitalistica che favorì l’industrializzazione del nord Italia, ma il suo costo fu la scomparsa di un’economia decorosa di sussistenza che impoverì la società e costrinse alla fame – e alla fuga dall’Italia – milioni di contadini. Per quanto siano rispettabili le istanze dell’associazione che riunisce le KlimaSeniorinnen della Svizzera (un piccolo numero soltanto, peraltro, di loro), lo Stato deve preoccuparsi anche, in una logica di razionale bilanciamento tra costi e benefici, delle esigenze dei ceti più deboli e sacrificati della società. La transizione si tramuterebbe per essi in una beffa: i miglioramenti delle condizioni di vita appena guadagnati grazie all’industrializzazione sarebbero loro immediatamente sottratti senza alcuna compensazione!

Ai temi di politica internazionale e di giustizia sociale si aggiunge la questione della separazione dei poteri e del rispetto dei circuiti democratici di rappresentanza dei popoli, e, da ultima, ma non per ultima, la questione della sovranità degli Stati. Già in termini di fatto è evidente che soltanto gli Stati – e non le Corti di giustizia – sono in grado di bilanciare interessi complessi come quelli che vengono in considerazione nella politica ambientale. E ciò grazie alla pluralità di competenze specializzate che trovano spazio nei governi, che si avvalgono non soltanto di dichiarazioni astratte, bensì soprattutto di uffici nazionali di statistica e degli organi di intervento attivo e di controllo successivo dislocati sull’intero territorio. Il bilanciamento, poi, riguarda anche gli interessi dei ceti sociali coinvolti nelle politiche di ‘transizione verde’, giacché le misure di contenimento dei gas serra non sono neutre, ma – pur promettendo vantaggi per il futuro – determinano costi vivi nel presente. V’è, poi, un altro profilo di bilanciamento, spesso trascurato dagli ambientalisti, concernente i costi futuri delle misure “verdi” destinate a sostituire le tecnologie oggi inquinanti. Le pale eoliche, per esempio, non soltanto deturpano il paesaggio – e creano disagi agli abitanti delle zone in cui sono piantate – ma solleveranno criticità economiche e ambientali allorché sarà terminato il loro ciclo di uso normale. E molti costruttori di auto elettriche nascondono ora il problema relativo ai costi dello smaltimento delle batterie necessarie per il funzionamento del veicolo. Anche di questi temi non si curano le dichiarazioni astratte di tipo giuridico, sostenute da giuristi-scienziati che hanno dimenticato la limitatezza del sapere giuridico, che si scontra – come si è sempre scontrato – con l’ostacolo pratico della concretizzazione della norma nel contesto socio-economico. Infine, proprio perché di spettanza legislativa e governativa, le misure di contrasto al cambiamento climatico sono: I) eminentemente discrezionali e II) soggette alla valutazione democratica delle popolazioni interessate.

In questo caso la Corte europea si è sostituita al Parlamento e al Governo misconoscendo la discrezionalità degli Stati nell’adottare misure compatibili con la condizione attuale delle proprie popolazioni. La Corte a un certo punto ammette che essa è competente soltanto a interpretare le previsioni della Convenzione e dei suoi protocolli. Tuttavia, nonostante la clausola retorica, ribadisce che gli Stati hanno l’obbligo di mettere in atto le misure mirate a prevenire la crescita di concentrazioni di gas serra e a mantenere la media delle temperature al di sotto dei livelli capaci di produrre seri e irreversibili effetti avversi ai diritti umani tutelati dall’articolo 8 della Convenzione. Ora, quale sia la soglia superata la quale il diritto umano previsto (rectius: non previsto) dall’articolo 8 sarebbe violato non è prescritto da alcuna norma della Convenzione, né da altri strumenti giuridici di protezione dei diritti umani. La sentenza, quindi, oltre a violare i princìpi di legalità, di separazione dei poteri e di democraticità, pregiudica anche il fondamentale principio di tassatività della norma di sfavore, sanzionando condotte che non sono state individuate con un minimo di precisione. La Corte ha infine violato il principio di sussidiarietà, destinato a garantire un margine di apprezzamento discrezionale agli Stati. Infatti, nelle questioni di politica sociale ed economica, ove affiorano diritti e interessi in competizione tra loro, la Corte, strutturata per funzionare nei rapporti con Stati a composizione democratica: “Ha un ruolo sussidiario rispetto ai legittimi poteri legislativo ed esecutivo dei singoli Paesi”.

Un profilo ulteriore riguarda la legittimazione ad agire dell’associazione KlimaSeniorinnen Schweiz. La questione è stata brillantemente affrontata dall’unico giudice dissenziente, il britannico Tim Eicke. Viene in considerazione l’articolo 34 della Convenzione. Esso prevede che la Corte può essere investita da una domanda fatta pervenire da ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di privati “che pretenda di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte parti Contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione e nei suoi protocolli”. In altri termini, per adire la Corte, occorre provare di essere “vittima” della violazione di un diritto fondamentale. Il giudice di Strasburgo ha asserito che “gli interessi rappresentati dall’associazione KlimaSeniorinnen Schweiz sono tali che la controversia al riguardo ha un diretto e sufficiente legame con i diritti dei membri dell’associazione, sì da statuirne il ruolo di vittima reale”. L’affermazione è apodittica. Nella sostanza conferisce legittimazione a situazioni che la Corte ha sempre escluso, cioè all’ammissibilità dell’actio popularis, nella quale il compito della Corte sarebbe di esaminare la legge e la sua applicazione in abstracto. La Corte non può permettere azioni individuali e di gruppi che si dolgano della previsione di una legge nazionale soltanto per il fatto che essa potrebbe essere in contrasto con la Convenzione, senza essere stati direttamente colpiti da essa. Il giudice dissenziente ha rilevato che la Corte, attenendosi sempre al principio del divieto dell’actio popularis, ha ammesso che soltanto in “highly exceptional circumstances”, il rischio di una futura violazione conferisce lo stato di “vittima” a condizione che “il soggetto produce (a) ragionevoli e convincenti prove della probabilità di eventi di violazione che concernono lui o lei personalmente: meri sospetti o congetture non sono sufficienti al riguardo”. Nel caso di specie nessuna prova di future dirette violazioni dell’articolo 8 della Convenzione è stata allegata, a riprova del carattere ideologico e arbitrario della decisione. A conferma del carattere assolutamente eccezionale dell’ammissibilità dell’azione in previsione di rischi futuri di violazione, il giudice Eicke ha notato che la Corte ha ritenuto inesistente addirittura la deroga per mancanza dello stato di “vittima” dei ricorrenti nel caso della ripresa dei test nucleari in Tahiti per decisione del presidente della Repubblica francese, sul rilievo che, nonostante la serie corposa di relazioni scientifiche e la prova dei danni provocati dai precedenti test nucleari, i ricorrenti non avevano soddisfatto l’onere probatorio richiesto.

Va aggiunto per completezza che la Confederazione svizzera ha subìto la condanna anche per violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione (diritto a un processo equo) in quanto le autorità giudiziarie svizzere non avrebbero giudicato la causa imparzialmente e con serietà, rifiutando di prendere in considerazione le allegazioni scientifiche in ordine al cambiamento climatico come presupposto del diritto di cui all’articolo 8. Va ulteriormente osservato che il conio ideologico della sentenza risulta dal fatto che la Corte non ha precisato quali sarebbero gli interventi che la Svizzera dovrà adottare al fine di adempiere ai suoi obblighi verso la Convenzione. L’omissione non è – come invece ha scritto Vladimiro Zagrebelsky – l’effetto naturale “di un procedimento giudiziario come quello condotto dalla Corte che impedisce una maggiore specificità di indicazione e, quindi, incisività della sentenza”, bensì dell’inesistenza o, quanto meno, dell’inaccettabile vaghezza del diritto che si assume violato: il che rende impossibile individuare giudizialmente o, almeno, valutare in termini giuridico-economici, l’entità del pregiudizio subìto dall’associazione delle signore anziane preoccupate del cambiamento climatico.

Come tutte le sentenze ideologiche, che assumono come spunto una situazione su cui il giudice intende manifestare la sua posizione politica e non, invece, esprimere un doveroso giudizio fondato su regole, gli effetti della decisione sono destinati a favorire l’implementazione dei ricorsi delle associazioni ambientaliste contro gli Stati. La sentenza infatti vincola tutti gli Stati che hanno approvato e ratificato la Convenzione. La dilatazione che la sentenza arreca alla facoltà di adire la Corte europea per le ragioni più diverse conferma l’assunto iniziale di questo scritto assertivo della violazione da parte del giudice del principio di separazione dei poteri.

La sentenza non funziona infatti come giudicato su una situazione determinata di vita, bensì come legge generale e astratta che limita la sovranità degli Stati e, in quanto tale, ostacola il bilanciamento discrezionale di ciascuno Stato tra i costi e i benefici delle singole misure, che non possono non essere difformi in relazione alle condizioni economiche e finanziarie di ogni singolo Paese e allo stato di avanzamento tecnologico dei rispettivi apparati industriali. Invece di favorire un’equa e razionale determinazione degli obblighi degli Stati tramite trattati internazionali in cui ciascuna parte rappresenta le sue legittime istanze, la sentenza costituisce un diktat unilaterale di un giudice che si fa indebitamente legislatore.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 17 aprile 2024 alle ore 16:33