Liberazione polifonica

La Liberazione è figlia di una polifonia di resistenze. Dopodiché alcune voci sono poi uscite dal coro assumendo tonalità discordanti con il pentagramma democratico.

Ma prima di quel 25 aprile la “pars destruens”, per dirla come Bacone, ovvero la lotta serrata ai totem e agli idoli nazifascisti, è riuscita a convogliare una pluralità di sensibilità politiche e culturali verso un unico obiettivo di rinascita. A recitarlo oggi sembra di sgranare un rosario composito, costituito cioè da lacrime con una differente modulazione di dolore. Perché il sangue versato è stato di tutti. Dei comunisti, dei cattolici e dei socialisti. Ma anche dei liberali, dei monarchici e dei repubblicani.

È stato il sangue di chi, pur professandosi politicamente apolide, ha voluto ugualmente districare il grano dei giusti dall’oglio degli occupanti per meglio coltivare le proprie radici civili. È stato il sangue dei soldati che, pur avendo un altro idioma rispetto al nostro, sotto questa terra ancora riposano.

È stato anche il sangue, e la sola “pietas” ne impone il ricordo, di chi ha combattuto nelle file dei sommersi pur sapendo, cantava De Gregori ne “Il cuoco di Salò”, che qui si faceva l’Italia e si moriva. Dalla parte sbagliata si moriva.

All’indomani del 25 aprile il mosaico resistenziale non è più riuscito a tenere salde tutte le singole tessere del quadro, poiché troppo divergenti erano le vocazioni ai percorsi di rinascita politica e morale da seguire. Insomma, la “pars costruens” non abbisognava di approcci teoretici contrastanti bensì di una logica coerente con i principi di una libertà che, ce lo insegna Benjamin Constant, non doveva essere più quella degli antichi ma necessitava una maggiore vicinanza alla volontà dei moderni. D’altronde vi è una differenza sostanziale tra chi desiderava ardentemente una rivoluzione proletaria, come fautrice di nuove distopie, e una figura quale quella di Edgardo Sogno che ha voluto proseguire l’attività esistenziale anni dopo il fine guerra italiano, come in Ungheria mentre Budapest grondava di tragedie sovietiche e di deliranti collettivismi. Ma questa è un’altra storia.

Rimaniamo a quel 25 aprile, a quella polifonia, a quei suoni che evocavano il saluto alla propria bella, ma anche la benedizione e la salvezza divina verso un paese lontano e ad un monarca di altre terre. Suoni che evocavano anche “sovrumani silenzi e profondissima quiete”. La quiete dei campi dopo la battaglia e il silenzio dei liberali che, pur non avendo canzoni, amavano praticare il lirismo degli ideali.

Aggiornato il 26 aprile 2024 alle ore 10:43