Supermalus e Trilussa

Tra gli effetti non ricercati né voluti del supermalus c’è quello di evidenziare presupposti, conseguenze, illusioni e derivazioni (nel senso di Vilfredo Pareto) del welfare all’italiana, tanto invocato nelle esternazioni pubbliche, soprattutto della “sinistra” italiana, quanto disatteso nelle pratiche di Governo (della stessa).

Partiamo dal dato quantitativo dei beneficiari della misura: riporta la stampa che sono stati il 4 per cento degli immobili italiani (e dei proprietari). Onde questo 4 per cento dei proprietari è stato finanziato a carico del 100 per cento dai contribuenti. Solo un cittadino su 25 ha le ragioni per rallegrarsene, e gli altri di dolersene. A meno che quest’ultimi non siano entusiasti di aver arricchito qualcuno che non sia loro amico, parente o che abbia bisogno di un aiuto; ma ne dubitiamo. Anche perché se il criterio della felicità collettiva è, come sosteneva Jeremy Bentham, di garantire la più grande felicità per il maggior numero possibile di persone, la misura non ha centrato l’obiettivo, proprio per il ridottissimo numero dei beneficiari.

Neppure pare possibile sostenere che a beneficiare del Superbonus sia stato l’ambiente, il pianeta o magari l’umanità. Anche fosse certo (ma non lo è) che a determinare l’aumento della temperatura della terra fossero state le emissioni di Co2 dovute (prevalentemente) dall’industrializzazione crescente (iniziata da circa 2 secoli abbondanti), quanto potrebbe contribuirne alla riduzione il 4 per cento dei condomini italiani? Un milionesimo del carbone bruciato da Cina e India? O forse molto meno? Comunque, una quantità trascurabile di guisa, da rendere una giustificazione del genere il prodotto di un’involontaria comicità. All’uopo, il rapporto così squilibrato tra beneficiati e pagatori del supermalus era trascurato, anche perché è profondamente significativo.

Se, declinando il criterio di Bentham, i beneficiati sono così pochi e i pagatori la quasi totalità, è evidente che il tutto configura un modello distributivo invertito rispetto a quello cui siamo abituati dal pensiero moderno. Prendendo per esempio quello marxista, la società comunista (e prima la dittatura del proletariato) avrebbe ottenuto il risultato di espropriare la ricchezza accumulata da pochi capitalisti sottratta e restituita alle masse proletarie e degli sfruttati, costituenti la stragrande maggioranza della popolazione. Invece il modello distributivo del supermalus è quello più spesso praticato: consistente nel trasferire la ricchezza da una massa (di sfruttati) a un’aristocrazia di beneficiati per decisione (politica) di chi governa.

Il tutto accompagnato dal coro ipocrita e costante di “giustizia sociale” e magari di “lotta all’evasione” che, nel caso, c’entra poco, trattandosi di squilibrio e disuguaglianza nelle spese e non nelle entrate. La quale avrebbe bisogno di un’espressione dedicata a designarne i beneficiari. Forse mantenuti? Pescecani? Profittatori? O, come da un vecchio monologo di Pippo Franco, parassati (ossia parassiti di Stato)?

Non sembra neanche sanabile la narrazione sul supermalus, facendo ricorso a ovvietà, come quella, nota da quasi un secolo, che la spesa pubblica stimoli la ripresa economica, anche se è inutile. Guerre (in particolare) e altro, come la costruzione delle piramidi in Egitto, hanno un effetto positivo, scriveva John Keynes. Ma il tutto non esclude – né lo affermava il grande economista – che le spese produttive lo abbiano di più, e soprattutto non hanno gli inconvenienti delle altre. Al riguardo, i sostenitori del supemalus hanno dimenticato che a beneficiare o meno della spesa pubblica sono gli individui, non solo l’insieme. Contare come un grande successo l’aumento di un punto del Pil ha la stessa logica della statistica del pollo di Trilussa: che se io mangio un pollo, e altri tre fanno la fame, significa – statisticamente – che abbiamo mangiato tutti un quarto di pollo a testa. Il che non è.

Aggiornato il 07 maggio 2024 alle ore 11:21