Santa Giustizia dell’Inquisizione

Quando in Sicilia il Viceré Domenico Caracciolo abolì la Santa Inquisizione, i nobili siciliani vollero mostrarsi più realisti del Re (e del Viceré) e chiesero e ottennero che, per cancellare anche il ricordo di quell’orribile pagina della storia religiosa e civile dell’Isola, fosse distrutto anche l’Archivio di quella nefanda istituzione.

Tanto zelo pseudo-illuminista, oscurantista della storia non era una semplice, smargiassa esagerazione di un furore di moda in quel momento. Quei nobili convertiti ai “lumi” del secolo avevano ottime ragioni per distruggere quelle terribili carte: i loro padri, i loro avi erano stati quasi tutti “famigliari dell’Inquisizione”. Un ruolo onorifico e in realtà disonorante, di spie e di collaboratori di caccie agli “eretici” o presunti tali, di garanti della collaborazione del basso clero sul quale avevano diritti di Giuspatronato.

E, poi, gli “onori”: quello di andare a cavallo in processione con le gualdrappe verdi e le bandiere verdi della Santa Inquisizione fino alla spianata dove si bruciavano vivi gli eretici a godersi gli “autodafé”. Ma, assai più consistente e ambito, era per questi signori violenti e mascalzoni il privilegio di essere esenti dalla giustizia regia, potendo essere giudicati solo dal Tribunale dell’Inquisizione. Che, feroce con gli eretici e i sospetti di “devianze”, era particolarmente benevolo e riguardoso nei confronti dei propri “collaboratori di giustizia”, benché assassini, stupratori, ladroni. Meglio, dunque, bruciare quelle carte compromettenti il buon nome (anche se solo ipotetico) delle famiglie e dei discendenti.

Tutto ciò mi torna alla mente di fronte a talune altrimenti inspiegabili contraddizioni della giustizia (si fa per dire) dei nostri giorni che si propone e si impone sempre di più come ispirata al modello storico della Santa Inquisizione, in Sicilia e dintorni. E altrove. La crudeltà di quei monaci assatanati è stata proverbiale. Oggi il Papa se ne scusa. Peccato che i suoi ugualmente “infallibili” predecessori le scuse se le facessero fornire dai disgraziati inquisitori estorcendogliele con atrocissime torture.

Pensavo e penso a tutto ciò di fronte alla crudeltà del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha negato a Marcello Dell’Utri, reo di eresia mafioso o presunto tale soprattutto per una questione di “razza” (anche l’Inquisizione di Spagna era razzista) di curarsi il cancro appena decentemente e tempestivamente senza doversi recare sotto scorta, in cellulare (quando disponibile) a praticare la chemioterapia, facendo la spola tra Rebibbia e un qualche ospedale romano.

Quasi contemporaneamente il Tribunale di Sorveglianza di Palermo ha concesso a Giuseppe Arnone, pluripregiudicato con in corso decine di processi e sentenze di condanna per anni e anni di reclusione prossime a passare in giudicato e divenire esecutive (salvo che anche la Cassazione rinunzi alla propria oramai indefettibile tendenza a respingere i ricorsi quando si tratti di certi personaggi), l’affidamento in prova a una certa Confraternita della Misericordia di Agrigento. Con la prescrizione di non commettere altri reati di diffamazione, di calunnia e di vilipendio (in pratica con la concessione della “condizionale” che non gli era stata concessa, né poteva esserlo, dai giudici del merito!).

Ma la misericordia del Tribunale di Sorveglianza di Palermo ha toccato i limiti di un allarmante grottesco (non parlo di ridicolo per più ragioni, ma essenzialmente perché, contrariamente al primo impulso, c’è assai poco da ridere) quando ha pazientemente prescritto ad Arnone Giuseppe detto Pepè (una volta lo chiamavano Pepè Corrimprocura) di “svolgere la professione di avvocato presso gli studi legale di Via Mazzini 148 e di Via Minerva 5”, (il primo sito al lato della facciata del Tribunale, era lo studio degli striscioni, perché munito di una loggia dalla quale egli espone abitualmente i suoi striscioni carichi di insulti a parti in causa, amministratori, magistrati, uomini politici) tutti i giorni della settimana tranne la domenica (prescrizione n. 1). Non solo, ma il Tribunale di Sorveglianza, sostituendosi in modo clamorosamente pacchiano all’Ordine degli Avvocati (il che è però spiegabile per la totale inerzia di questo!) e ai magistrati delle udienze (in cui l’avvocato galeotto in prova Arnone Giuseppe dovrebbe andare a svolgere il suo ministero di scienza giuridica e di moralità sociale!) “tenesse buona condotta innanzi alle Autorità Giudiziarie e nell’esercizio della professione!” (prescrizione n. 8).

Il lettore non di Agrigento e di Sicilia si domanderà: ma chi è questo Arnone? Già. Qui e ora non ve l’ho detto. Ne ho parlato e scritto anche troppo e per dovere professionale e civico. Qui vi dirò che negli scorsi decenni, il suo ruolo (si fa per dire) nella giustizia (si fa pure per dire) e nella Città di Agrigento e le sue millanterie sono state tali da farmi venire in testa, ancor oggi, benché i suoi buoni rapporti nei confronti di molti magistrati, il suo “plagio” nei confronti di qualcuno o qualcuna di essi siano cessati e sia subentrata una abituale violenza verbale, grafica, pubblicistica addirittura inimmaginabile contro un po’ tutti gli attuali P.M. e Giudici di Agrigento, è stato un ruolo che fa pensare ai “famigliari dell’Inquisizione” d’altri tempi.

Una qualifica che, credo, non si perdesse o non se ne perdessero del tutto i privilegi anche quando questi nobili signori mascalzoni cadevano nel peccato e sotto i fulmini di scomuniche assai meno scottanti di quelle per i cristiani qualsiasi. Così vanno le cose. Un po’ di comprensione per un alfiere dell’antimafia, della “legalità”, dell’ecologia, anche se un po’ discolo ci vuole. Purché Dell’Utri marcisca a Rebibbia col suo tumore.

Aggiornato il 09 febbraio 2018 alle ore 08:16