Stanno scomparendo i medici di famiglia? ne parla Bartoletti

Con la legge n. 833 del 1978 nel Sistema sanitario nazionale italiano (Ssn) viene introdotta la figura del medico di medicina generale in sostituzione del medico della mutua o di base. Il ruolo del medico di medicina generale è diverso dal precedente medico della mutua per formazione, per competenza e anche per il tipo di attività che svolge. La legge 833/1978 e successive modificazioni assegnano al medico di medicina generale il ruolo centrale della cura della persona al di fuori di un ospedale. La legge garantisce ad ogni cittadino il diritto di essere curato da un medico di famiglia indipendentemente dal suo reddito o dall’occupazione che svolge. Il decreto legislativo n. 368 del 1999 e successive modificazioni, hanno introdotto il periodo formativo post laurea necessario di tre anni, per poter esercitare la professione medica come le altre specializzazioni.

Il medico di famiglia è il collegamento, lo snodo fra il cittadino e il Sistema sanitario nazionale. Ma quasi 15mila medici di medicina generale cesseranno la propria attività nei prossimi 5 anni e 14 milioni di italiani resteranno senza medico di famiglia. Come si pone rimedio a questo disastro? Ciascun medico di famiglia può avere un numero massimo di 1500 assistiti. Ci sono luoghi in tutta Italia, ma specialmente al nord, in Lombardia per esempio le situazioni più gravi, dove intere zone sono sprovviste già adesso di medici di famiglia. Ne parliamo con il dottor Pier Luigi Bartoletti, segretario di Roma e vicesegretario nazionale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), che ha da sempre a cuore l’interesse di raggiungere gli obiettivi lavorando in squadra coinvolgendo i vari soggetti istituzionali.


Fra 10 anni si saranno ritirati oltre 33mila medici di famiglia e sono previsti appena 11 mila ingressi nei corsi regionali di preparazione alla professione. Che succede quando un medico di famiglia se ne va in pensione e non viene sostituito?

Un collega mi diceva che a Piacenza insistono 35 zone carenti dove mancano medici di medicina generale e il bando per la copertura dei 35 posti è andato deserto. Stiamo lavorando con il ministero della Salute già adesso per aumentare il numero di borse di studio che consentiranno ai colleghi di essere adeguatamente formati in medicina generale. Però questa è una misura che anche messa in cantiere adesso vedrà i frutti fra diversi anni, perché ci vogliono i tempi. Proprio in questi giorni il Presidente della Regione Lazio è riuscito a raddoppiare le borse di studio in concorso, da 85 a 174 e non è poco. In questo momento però non è soltanto la medicina generale che sta in sofferenza; c’è per esempio la medicina d’urgenza, tutta l’area dell’emergenza è in sofferenza. Noi abbiamo colleghi precari che tengono in piedi i reparti che chiuderebbero senza di loro. Il concetto è: come è possibile che un paese che da la possibilità di svolgere importanti interventi chirurgici, anche per mano di ottimi chirurghi che però sono ancora precari, deve ancora tollerare la piaga del precariato? Il problema vero è che non solo in questo paese c’è una carenza di medici, per cui si rischia di rivedere il fenomeno che avvenne con gli infermieri 15 anni fa, quando noi cominciammo a importare infermieri dall’Argentina e dalla Romanìa, il che è abbastanza incredibile, ma che rischiamo che nei prossimi anni ciò avvenga anche con i medici. Con l’aggravante che in ogni caso gli ospedali sono tenuti in piedi troppo spesso dai precari: questo è il caso dei pediatri per esempio, dove l’età media è sempre più alta, e dove sicuramente l’università non ce la farà a “sfornare” gli specialisti che serviranno a coprire le carenze dei prossimi anni. Quindi non è un problema di settore, questo è un problema di sistema che interessa sia il territorio che l’ospedale, perchè anche in ospedale il problema si pone.

Ma le politiche quindi sono inadeguate, approssimative?

Per carità, io non esprimo giudizi nei confronti delle politiche, guardo i fatti. Se ci stanno carenze di medici qualcuno ha sottovalutato nella fase della programmazione quello che era necessario. Altri Paesi programmano in anticipo non soltanto il numero dei medici ma anche le specialità dove servono più medici. Faccio un esempio: all’aumento dell’età media della popolazione, quindi con persone oltre gli 80/90 anni, sicuramente ci si predispone al rischio di rotture, per es rotture del femore; già in Germania negli anni passati hanno visto che c’era una carenza di ortopedici ed hanno cominciato a specializzare più ortopedici. Questi discorsi vanno fatti a livello centrale, devono essere le varie autorità ministeriali ad occuparsi di programmare questo tipo di interventi. Poi assistiamo ad un altro fenomeno, molti medici in area di parcheggio, che non stanno in specialità. Questo è un altro paradosso, mancano i medici, mancano gli specialisti però ci sono colleghi che vincono borse di studio per le specialità e poi non vanno a farle. Preferisco aspettare un anno perché magari non riuscirebbero a mantenersi fuori sede per fare la specializzazione in quanto la graduatoria vuole che vinci a Trieste, ma tu stai a Roma e allora ti fermi un anno e poi si vede.

Un giovane medico, appena laureato, si trova davanti ad un bivio: tentare la scuola di specializzazione universitaria oppure quella del corso regionale di medicina generale. Sono due percorsi necessariamente in contrasto?

Sono incompatibili l’uno con l’altro. L’altro problema è che abbiamo molti posti che si perdono perché avendo i due concorsi in date separate, se per caso il concorso di specializzazione avviene dopo il nostro succede che spesso chi vince il nostro finisce per optare poi per la scuola di specializzazione ed abbandona il concorso vinto in precedenza. C’è tutto un sistema da rivedere perché così rischiamo di buttare risorse nel momento in cui risorse non ce ne sono.

Economicamente gli specializzandi e i corsisti di medicina generale sono trattati in modo diverso, forse anche questo li alletta meno?

È chiaro che anche questo è un discorso di equità, se è una borsa di studio non si capisce perché c’è chi prende mille e chi prende 800 facendo lo stesso lavoro, anche quello è un problema.

 Ma potrebbe essere un problema anche il fatto che chi ha fatto la scuola di specializzazione universitaria viene percepito come affermato professionista, come un “professore” mentre chi fa il corso regionale invece no? Potrebbe essere una problematica estetica?

Sentendo i miei colleghi questo è l’ultimo dei problemi. Il corso regionale ha un senso perché bene o male tutte le normative di carattere organizzativo sanitario derivano dalle Regioni, quindi è chiaro che dal punto di vista regionale quando si istituì il corso, se non ricordo male nel 1994, dopo lunghe vicissitudini si stabilì che il corso non era un diploma di specializzazione ma era una borsa di studio con attestazione perché la Regione non può dare diplomi di specializzazione. Stiamo lavorando per cercare di risolvere questi problemi insieme con l’Università con cui noi ci auguriamo di collaborare, perché da una crisi di sistema non è che se ne esce da soli, ma tutti insieme. Come insieme ci siamo entrati insieme se ne esce. Inutile guardare alle singole responsabilità perché a poco serve, bisogna guardare avanti, non indietro.

(*) Fine prima parte

Aggiornato il 04 ottobre 2018 alle ore 10:44