Attentato di Fiumicino, intervista a Francesco Di Bartolomei

“Il grado di complicità dei governi italiani dell’epoca del primo attentato di Fiumicino (17 dicembre 1973, 32 morti e 15 feriti gravi) con i capi del terrorismo palestinese può essere paragonato solo alla compromissione della Repubblica francese di Vichy con l’occupazione dei nazisti”. La frase più significativa dell’intervista con Francesco Di Bartolomei, coautore insieme a Antonio Campanile e a Nuccio Ferraro del clamoroso libro-inchiesta “Lo sparatore…sono io !”, è sicuramente questa. E fa riferimento alle operazioni di intelligence deviata con cui venne utilizzato un aereo, il famoso “Argo16”, che l’Italia aveva in dotazione per la struttura “Stay behind” – meglio conosciuta alle cronache come “Gladio”– e che utilizzò per fare rifugiare in Libia alcuni dei terroristi Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) implicati nel gennaio del 1973 in un tentativo di fare cadere l’aereo El Al che portava il capo di governo israeliano dell’epoca Golda Meir in Italia. Un caso più unico che raro di depistaggio istituzionale in un quadro di mini-Guerra Fredda medio orientale consumatasi per anni sul suolo patrio. Che ha incluso il silenziamento obbligato di un prezioso testimone – ed eroe – dell’epoca. Appunto lo “sparatore” venuto allo scoperto per la prima volta nel libro in questione. Un agente di polizia che mise in fuga i terroristi, sparando dai tetti dell’aeroporto e che per questo suo gesto di un eroismo, che sconfina con la ricerca del martirio, fu ringraziato dallo Stato con sette giorni di “quarantena mediatica” in una caserma e con interrogatori quotidiani da parte dei suoi superiori che, in pratica, gli fecero capire che di questa faccenda avrebbe dovuto dimenticarsene. Non prima, però, di avere recuperato i tre bossoli sparati dal suo Mab al fine che non restassero tracce dell’accaduto. Fatti sporchi di un’Italia condizionata dal rapporto con il terrorismo arabo-palestinese a cavallo della nascita del cosiddetto “Lodo Moro”. Fatti ancora coperti dal segreto di stato, alla faccia di chi crede che per le stragi e il terrorismo non possa più essere opposto dopo la famosa riforma legislativa.

Va detto che, per la delusione e il dispiacere del comportamento dello Stato nei suoi confronti, Antonio Campanile due anni dopo questi fatti lasciò la polizia. E da allora ha vissuto con i propri terribili ricordi e le proprie angosce. Nonché con la rabbia di avere dovuto obbedire a ordini ingiusti.

E lei, Francesco Di Bartolomei, a Campanile come lo ha conosciuto?

Casualmente. Conoscevo suo figlio che me lo presentò. E siccome io da tempo mi occupo della rievocazione di alcuni episodi storici che sono i veri misteri d’Italia, lui ha creduto di trovare in me il primo e sinora l’unico che potesse dare voce alla sua esperienza drammatica.

Cosa le disse?

Che la sua vita, i suoi principi e le sue scelte lavorative erano state condizionate da quell’episodio. Inoltre, si tormentava chiedendosi se avesse fatto bene a rispettare la consegna del silenzio che gli fu imposta praticamente manu militari.

Come avete fatto a trovare la documentazione per il libro?

Il colpo di fortuna fu aver saputo della esistenza in vita del fotografo Elio Vergati, che all’epoca lavorava per l’Ansa e che aveva ancora le copie degli scatti di quella tragica mattina, nonché numerosi articoli di giornali di quei primi mesi dopo l’attentato.

E cosa venne fuori da quegli articoli?

Confermavano la tesi di Campanile su un depistaggio clamoroso per favorire i palestinesi da parte del governo italiano, specialmente da parte di quelli seguenti a quello in carica al momento dell’attentato.

Ad esempio?

“Cito per tutti un articolo dell’allora giovanissimo cronista giudiziario de “La Nazione”, Guido Paglia, secondo cui il ministero dell’Interno era stato avvisato tre mesi prima da quello degli Esteri, allora ricoperto da Aldo Moro, del possibile attentato ritorsivo di Fiumicino. Paglia scrisse l’articolo pochi giorni dopo l’attentato e riportò la deposizione in aula fatta dal dirigente dell’ufficio politico di Roma della polizia, Domenico Spinella. Il quale ammise candidamente durante il processo ai terroristi arabo palestinesi accusati del fallito attentato a un aereo della El Al israeliana, su cui avrebbe dovuto viaggiare l’allora premier Golda Meir (attentato che si sarebbe dovuto tenere nel gennaio di quello stesso 1973) che tutti i vertici del Viminale sapevano di questo attentato, ma che nessuno si mosse.

E chi difese la gente a Fiumicino quel 17 dicembre 1973?

In pratica nessuno, persino i pompieri che spensero l’incendio dell’aereo della Pan Am – in cui i terroristi avevano buttato due bombe al fosforo che avrebbero ucciso carbonizzandoli ben 29 passeggeri – prima che esplodesse sulla pista, di fatto operarono sotto le pallottole dei guerriglieri. Cinque terroristi si erano impossessati del maggiore scalo aeroportuale italiano e a difendere la gente inerme da assassini che avevano già fatto 31 morti si ritrovò da solo l’agente Antonio Campanile. Il quale, per tutto ringraziamento, venne subito dopo consegnato in una caserma per una settimana e interrogato come se fosse stato lui il responsabile. Fecero ciò per tenerlo lontano dai media praticamente fino a oggi.

E questo per lei è stato un vero e proprio depistaggio?

Altroché, spero che la gente si legga il libro dalla prima all’ultima pagina per rendersi conto di come l’Italia dell’epoca con i suoi politicanti si sia resa responsabile di un collaborazionismo con il terrorismo palestinese che io oso paragonare a quello della repubblica di Vichy e dei suoi uomini politici francesi con gli occupanti nazisti”.

Aggiornato il 23 dicembre 2020 alle ore 11:55