Pandemia, capi d’azienda e l’incubo smart working

Se c’è un elemento positivo rinvenibile nell’immane tragedia della pandemia, esso è costituito dalla grande spinta propulsiva che la necessità di evitare contatti sociali ha dato alla modernizzazione del mondo del lavoro. Ci riferiamo al cosiddetto smart working ovvero alla formula alternativa al lavoro in ufficio di cui tanto si era chiacchierato in passato senza e che – tranne in rari casi – nessuna azienda avesse mai veramente investito. Obtorto collo, stante la pandemia, molti capi d’azienda si sono dovuti piegare alla necessità di potenziare il lavoro a distanza ma solo perché costretti e non perché animati da intima convinzione. D’altronde, i dati parlano chiaro: in tanti anni di vacua esaltazione (a parole) dello smart working – esaltazione che faceva tanto giovane, cool e new economy – i capi d’azienda si sono ben guardati dal tenere i dipendenti a casa. Ma perché? Semplice: la classe dirigente di questo Paese è vecchia (a volte anagraficamente e a volte solo culturalmente) e mal sopporta di non esercitare la formula del controllo tradizionale basata sulla timbratura del cartellino, sul cazziatone alla macchinetta del caffè per eccessiva permanenza e arnesi simili da tardo Novecento. Inutile spiegare loro che azzerare i tempi di viaggio, le stantie dinamiche del lavoro in sede e mille altre chincaglierie vecchie come i mammut in bigodini (le di loro mogli) che devono sopportare ventiquattro ore a casa, genera molti risparmi e altrettante efficienze.

Loro amano svegliarsi la mattina, radersi, mettere la cravatta e girare nei corridoi con sguardo arcigno mentre gli ossequiosi e timorosi schiavi sono lì, chini, sulle tastiere. Non capiscono che i lavativi trovano il modo di esserlo anche con il lavoro in presenza e che il lavativo è tale perché – per incapacità della classe dirigente – non ha obiettivi misurabili a cui essere inchiodato. Loro conoscono un’unica forma involuta e arcaica di controllo (che poi è quello che altri esercitavano nei loro confronti) e non hanno fatto passi avanti, non si sono confrontati col mondo, non hanno sentito il bisogno di mettersi in discussione perché, nel loro mondo antico e retrò, il confronto non è contemplato. Loro sono autoreferenziali e distinguono ancora il prestigio dal materiale della scrivania dell’ufficio, dal piano al quale sono collocati e dal numero di giannizzeri di cui possono disporre. E poi, vuoi mettere il posto di lavoro dove sono temuti, serviti e riveriti messo a confronto con le quattro mura di casa ove sono costretti a convivere con quella vecchia “rompi-maroni” che blatera e impartisce ordini tutto il giorno.

I nostri capitani d’azienda sono in crisi nera: hanno vissuto per trent’anni quindici ore fuori casa, impartendo ordini mentre adesso vengono vessati dalla dirigista e logorroica consorte potendo fare “abuso di potere” solo via mail o via telefono. Loro sono i primi a sgranare il rosario, perché questa benedetta pandemia cessi restituendoli alla cara vecchia vita di un tempo. Per questo – a emergenza finita – non esiteranno un momento a rastrellare lavoratori per ricacciarli nelle gabbie, per rimetterli negli angusti loculi. E al diavolo se il mondo è cambiato o se il contraccolpo psicologico dei dipendenti è stato forte in questi mesi. Penseranno: io rivoglio la mia cara vecchia vita. Sono in una maledettissima crisi di astinenza e – finita la pandemia – potrebbero compiere gesti violenti e sconsiderati, come convocare il giorno dopo i dipendenti in azienda anche se è domenica (è una fantasia perversa ma qualcuno forse ci ha già pensato). Se dipenderà da loro – finita la pandemia – lo smart working sarà solo un lontano ricordo, un incubo dal quale vorranno risvegliarsi ricacciandolo il più lontano possibile, in barba ad ogni manfrina sulla qualità della vita e dell’ambiente che questi giovani hippy mettono in giro per cambiare il mondo e ridurlo in frantumi. Per questo, la politica ha il dovere di intervenire regolamentando qui ed ora uno strumento di civiltà come lo smart working che – se lasciato nelle mani dei capitani d’azienda – farà la fine degli studenti cinesi a piazza Tienanmen.

Aggiornato il 23 dicembre 2020 alle ore 10:15