La Superlega: opportunità o necessità?

Il clamore suscitato dalla recente vicenda della Superlega europea del calcio, con una generale levata di scudi da parte di molte Società, uomini politici e, financo, capi di Stato e di Governo, induce ad una seria riflessione di verità rimasta nascosta nel dibattito pubblico. Vero è che le dodici Società promotrici costituiscono l’eccellenza del calcio europeo e rappresentano realtà imprenditoriali ed economiche che, ad ogni evidenza, superano il dato sportivo. Non vi è alcun dubbio che l’emergenza della pandemia da Covid-19 abbia attenuato la passione popolare e la tensione di fronte al fenomeno calcistico. Difficilmente partite di calcio senza pubblico e affidate alla sola fruizione televisiva suscitano interesse ed emozioni nei confronti di tali eventi paragonabile a quello precedentemente sperimentato.

Ciò comporta una significativa deminutio patrimoniale delle Società calcistiche, la cui fonte finanziaria si concentra quasi esclusivamente, se non in toto, nel corrispettivo che le grandi emittenti nazionali, ma soprattutto internazionali, pagano per acquistare i diritti televisivi.

Basta analizzare i bilanci degli ultimi due anni per rendersene conto. Pertanto, il dato economico e imprenditoriale assume un rilievo quasi esclusivo o comunque prevalente, poiché, diminuendo progressivamente le risorse finanziarie, l’intero movimento si impoverisce. Da almeno trent’anni e forse più, il flusso economico-finanziario del mondo del calcio dipende dall’appeal attrattivo delle grandi Società che, come le dodici della Superlega, hanno tifoserie nazionali, se non internazionali e non meramente regionali, per non dire locali. Non si comprende, pertanto, la ragione della critica serrata avanzata dalle altre Società, che notoriamente dalle ricevono “grandi” soltanto benefici, se non i mezzi di sussistenza. Non si tratta, come superficialmente da tanti affermato, di insensibilità delle grandi Società europee, ma la loro presa d’atto è che la crisi economica le costringe, per mantenere livelli finanziari paragonabili a quelli attuali, a modulare un campionato europeo di altissimo livello, che possa ravvivare l’interesse del pubblico nel periodo post-pandemico e ripristinare le leve finanziarie precedenti, per quanto possibile.

Di ciò si gioveranno le altre Società, che potranno organizzare campionati di supporto e competere nelle possibilità di accesso alla Superlega, già prevista dal progetto. Questo è il senso dell’iniziativa, affidata a strumenti di diritto privato propri del mondo imprenditoriale, che nessun Paese o Governo può limitare e, tantomeno, inibire, se non violando l’integrità patrimoniale delle Società (e degli azionisti), così come avvenuto per la caduta in borsa del titolo della Juventus. Non vi sono nazionalismi che tengano ed è indicativo che il ruolo decisivo per il (temporaneo) tramonto dell’iniziativa sia stato svolto dal premier inglese, noto nazionalista e fautore della Brexit.

Non si può essere europeisti e fautori del principio di libera concorrenza (articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea e 41 e 117 della Costituzione italiana) a corrente alternata, propugnando l’europeismo di maniera e il nazionalismo di comodo, quando appunto fa comodo. Vero è che le altre società dovranno auspicabilmente concordare con i grandi Club e con il supporto del potere regolatore pubblico, un modus vivendi che garantisca l’esistenza del fenomeno calcistico e la sua diffusione, salvaguardando l’interesse pubblico, questo sì, allo sviluppo delle competizioni sportive e non arroccarsi su posizioni egoistiche, che, attesa l’ineludibilità del progetto dovuta alla più grande crisi economica del dopoguerra, produrrà l’irrilevanza delle stesse, se non la loro scomparsa per come le abbiamo conosciute.

(*) Professore di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino

Aggiornato il 23 aprile 2021 alle ore 12:45