Ritratti. Caregiver in fuga dalla città: la storia di Elena Improta

Il caregiver, tecnicamente, è colui (o colei) che si prende cura dei familiari ammalati o disabili. Elena Improta è una caregiver: madre di Mario, affetto da tetraparesi spastica, più di un anno fa ha lasciato la Capitale, dove viveva praticamente da sempre. Si è trasferita in Toscana – insieme anche al compagno – nella zona della Maremma, dove sta portando avanti un progetto legato al Dopo di noi. Intervistata da L’Opinione, ha parlato di questa nuova esperienza e ha ricordato: “Il nostro è un percorso di vita complesso”. E che bisogna avere l’umiltà “di saper chiedere aiuto. Non dobbiamo vergognarci di toccare il fondo o di pensare di non farcela”. Con una richiesta: “Ci sono giornate dedicate a qualsiasi tema, ma ne manca una intitolata alla figura del caregiver. Perché non istituirla il 28 novembre, giorno di San Giovanni Di Dio? Spero che qualche parlamentare mi ascolti. Vedi mai…”.

Da oltre un anno ha lasciato Roma per andare a vivere in Maremma, esattamente a Orbetello, provincia di Grosseto, dove la Regione Toscana ha detto ok al progetto sul “Dopo di noi” portato avanti dalla onlus “Oltre lo Sguardo”, da lei presieduta. Può spiegare perché nella Capitale non sarebbe stato possibile tutto ciò?

La Regione Toscana è stata una delle prime in Italia, nel 2018, a dare seguito alla legge 112 del 2016 sul “Durante” e “Dopo di noi”. All’epoca, tre anni fa, il nostro progetto di trasferirci per sempre era ancora in fase embrionale. Nonostante ciò, abbiamo ritenuto di dare un contributo partecipando al bando che ci ha dato la possibilità di conoscere la realtà delle Colline dell’Albegna (in provincia di Grosseto) e i bisogni delle famiglie dove sono presenti persone con disabilità. Nella Capitale, le Asl non erano nelle condizioni di attivare queste progettualità, mentre abbiamo avuto la possibilità di sperimentare tale modello di residenzialità grazie alla visione molto più aperta della Regione Toscana. Nel vivere in maniera assidua il territorio della Maremma, abbiamo capito che poteva diventare da progetto sperimentale a progetto di vita. Allo stesso tempo, abbiamo compreso che questo tipo di esperienza, questo cambio di vita, non sarebbe stato possibile nella Città Eterna, in quanto Roma (ma vale anche per il Lazio) mostra ancora delle difficoltà oggettive in quella che è l’uniformità di applicazione della legge a livello dei singoli Distretti Asl, Municipi e Comuni. Queste le valutazioni che abbiamo messo sul piatto dal punto di vista manageriale, poi c’era e c’è il ruolo di madre. Considerato inoltre il vissuto dal 2015 al 2020, legato all’assistenza per mio figlio Mario, abbiamo realizzato dentro di noi che il nostro tempo nel Lazio era scaduto. Dovevamo metterci in gioco e rischiare. Sì, rischiare un nuovo modus abitandi.

Nel progetto si parla anche di co-housing: può spiegare di cosa si tratta?

Se ne parla spesso di co-housing, ma non è normato a livello nazionale. Per co-housing si intende, in maniera generica, un progetto di co-abitazione che può essere a vari livelli. In Europa è partito prima del 2006, soprattutto per le persone fragili, in particolare con disturbi psichiatrici, che escono dalle Comunità psichiatriche e che, dopo il percorso di cura, non possono rientrare nel nucleo familiare di provenienza. L’idea, pertanto, è questa: riuscire ad abitare insieme, con la supervisione di esperti. Ci sono modelli importanti legati agli anziani, soprattutto quelli soli o che non hanno la possibilità di contare su parenti più vicini, che possono portare anche a un risparmio in termine economico. Si è poi sentito parlare di co-housing legato al mondo della disabilità ad alto funzionamento (autismo, Sindrome di down, per esempio). Ovviamente c’è da fare un distinguo con le case-famiglie, legate a normative regionali che stabiliscono un lavoro di equipe anche a livello sanitario. La casa-famiglia abbraccia anche una esperienza più sanitaria, un intervento sociale e sanitario. La legge 112 del 2016 è meno stringente su questi requisiti. Quale sono agevolazioni? In primis, il tipo di appartamento: non c’è una regola cogente su metri quadrati, numero di bagni, menu o cucina. Si è così partiti da esperienze familiari, realizzate in altre Regioni italiane, che hanno visto associazioni di familiari in prima linea realizzare dei nuclei abitativi per accogliere e prendere in carico anche altre persone con disabilità. Il criterio è semplice: la legge parla di “servizi alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”, quindi non solo orfane ma anche in stato di disagio economico e sociale, anche se il livello della gravità non può essere eccessivamente elevato, in quanto i fondi a disposizione non sarebbero sufficienti. Il risultato finale del nostro modello di co-housing, ad esempio, è che abbiamo realizzato tre nuclei abitativi. In uno dei tre appartamenti viviamo noi – la famiglia che ha il figlio, o figlia, con disabilità – comunicanti sullo stesso pianerottolo si sviluppano spazi abitativi, che possono permettere ad altri (3-4 persone massimo adesso, visto il momento Covid) con un livello di assistenza medio-alto (12 ore) di vivere e sperimentarsi nella quotidianità alla vita adulta. L’elemento principale sarà rispettare le regole di convivenza, la condivisione degli spazi, saper gestire gli affetti, sentirsi utili alla comunità, rafforzare la propria autostima. I nostri ragazzi, molto spesso, non hanno necessità di una riabilitazione logopedica, motoria o psichiatrica, ma hanno bisogno di una vita piena!

Elena Improta, madre coraggio nel nome del figlio Mario... sul fronte disabili, quali sono le lacune più evidenti del nostro Paese dal punto di vista burocratico e legislativo?

È importante che il nostro impegno non rimanga chiuso nelle nostre esperienze di vita, ma che sia esportabile. Provare modelli va bene, ma se non c’è un progetto nuovo, se non si sperimentano nuovi progetti, è finita. In epoca Covid, dopotutto, il respiro è corto. Quindi, passatemi la battuta, più che madre coraggio mi definirei una caregiver masochista nel perseverare (sorriso amaro, ndr). Già, perché se non ti confronti con le lacune del sistema legislativo, non riesci a lasciare una traccia o non hai la possibilità di dare il là per proporre nuove leggi. Oggi il problema che ci accompagna è quello di sempre: i fondi a disposizione per le progettualità. Continuiamo a credere in questo progetto di “Durante” e “Dopo di noi” promuovendo il modello del co-housing perché come famiglia, come Associazione, siamo nelle condizioni di poter dare del nostro. Le case sono messe a disposizione a titolo gratuito, facciamo fund raising, i fondi privati alleviano le spese della famiglia. Il dramma vero è che non si mettono a regime per questi progetti i soldi effettivi di cui si ha bisogno. Per essere concreti, la logica è che si prepara una torta per dieci persone, ma alla festa gli invitati sono cento. E gli scontenti sono novanta. Così, la cosa drammatica è che in tal modo si allontanano le famiglie, perché non ritrovano quella giusta attenzione, quel giusto grado di assistenza. Mario, mio figlio, non potrebbe mai sperimentarsi in un gruppo appartamento perché è molto grave… ma all’interno di questo modello di co-housing, essendo il “padrone di casa”, gli abbiamo portato “il mondo esterno dentro casa”. Adesso è inserito in una comunità, La Casa di Mario, dove ruotano molteplici attività e non siamo mai soli. Un unicum, come una nuova famiglia. Mario è sì il padrone di casa, ma è anche il loro amico. È uno scambio che abilita, che fa stare in uno stato di benessere.

Tra i progetti in essere c’è anche quello che, in un hashtag, è stato riassunto con “Diversamente attori”…

“Diversamente attori” è un laboratorio nato da poco. Lo stiamo sperimentando, anche con ragazzi con disabilità gravi, con la coach Irene Lizzulli. È uno spazio dove si dà vita alle performance espressive attraverso le quali Mario e i suoi amici ritrovano una sorta di realizzazione. Un momento importante anche per coloro che non possono parlare, ma che attraverso la loro gioia riescono a creare un collante per stare insieme. Vediamo se per dicembre riusciremo a realizzare un flashmob, con il presidente della Cooperativa dei Pescatori di Orbetello, per gli auguri di Natale. I temi trattati? Non voglio spoilerare nulla, ma sicuramente acqua, mare, laguna. Soprattutto andare oltre. Si partirà dai ragazzi, che cercheranno di mostrare agli altri il loro mare interiore. Il messaggio a chi verrà è chiaro: guardare oltre la disabilità.

Il suo libro “Ordinaria diversità” racconta “una storia d’amore… alla ricerca del peccato originale – semmai ce ne fosse stato uno – con il desiderio di far capire a tante famiglie che gli ostacoli si possono superare”. A questo punto del suo percorso di vita, quale è la sua riflessione?

Il peccato originale l’ho trovato: il senso di colpa, non essere stata in grado di procreare un figlio sano. Se pensi solo in quel modo, non riuscirai ad andare avanti, ritenendo di essere una donna inadeguata e sbagliata: da lì si scatena un inferno interiore. Arrivare alla storia d’amore necessita di tanti aiuti, di umiltà nel saper chiedere una mano, di non vergognarsi di toccare il fondo o di pensare di non farcela. È importante lavorare sull’Io interiore. Penso che sia fondamentale mettersi in gioco: gli ostacoli si superano, ma non è detto che non se ne trovino davanti altri. La mia riflessione è che si tratta di un percorso di vita complesso. Ci sono giornate che non ce la facciamo e giornate in cui ce la facciamo. La chiave di tutto sta nell’avere un progetto nel cassetto, per arrivare al giorno dopo.

Aggiornato il 12 novembre 2021 alle ore 21:50