La gestione della pandemia tra biopolitica e totalitarismo – Parte I

“La biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze. È noto quale spazio crescente abbiano occupato questi problemi a partire dal XIX secolo e quali poste politiche ed economiche abbiano costituito sino a oggi”.

Così Michel Foucault nelle sue lezioni al Collège de France alla fine degli anni Settanta del XX secolo ha coniato il termine e il concetto di biopolitica. La biopolitica è, in sostanza, il governo politico del bios, o meglio, il tentativo da parte della sfera politica di controllare la sfera del bios attraverso regole, discipline, limiti, classificazioni, tracciamenti tecnologici e ogni altra modalità utile o necessaria a tale scopo. In tale scenario sembra essersi mossa la gestione della pandemia che proprio per questo si propone – nonostante l’incapacità quasi assoluta della quasi totalità degli studiosi sul tema di riconoscerla come tale – come il più esteso e problematico tema biopolitico (e quindi anche inevitabilmente biogiuridico) che negli ultimi due decenni si è imposto all’attenzione degli osservatori.

La gestione della pandemia del Covid-19 si è mossa proprio all’interno di uno spazio pratico e concettuale che è delimitato da un lato dal profilo biopolitico (che si tenterà di esaminare in questa sede) e, dall’altro lato, dal profilo di mutazione del sistema politico-giuridico con pulsioni e tendenze che sono strutturali più di un sistema totalitario che di uno Stato di diritto democraticamente fondato (questione che si tratterà in una seconda parte). Anzi, si potrebbe osare affermando che la gestione pandemica tanto più è problematizzata come fenomenologia biopolitica quanto più essa si rivela come totalitaria e, per converso, tanto più essa si palesa come espressione di una nuova forma di totalitarismo quanto più essa diventa un problema prettamente biopolitico. Il tema, senza dubbio, è quanto mai articolato e complesso e non può certo essere esaurito in modo esaustivo in un così breve spazio, ma se ne possono tracciare i perimetri generali.

Il profilo biopolitico della gestione pandemica, sia italiana che internazionale, emerge in almeno tre direzioni distinte: nel rapporto tra politica e scienza biomedica; nel rapporto tra conoscenze biomediche e gestione dei diritti individuali; nelle relazioni tra governanti e governati secondo il paradigma, appunto, biopolitico. Sotto il primo aspetto, cioè il rapporto tra politica e scienza biomedica, occorre precisare come durante la gestione pandemica la politica ha rinunciato alla sua vocazione di sintesi, rimettendosi interamente alle determinazioni delle scienze biomediche che, però, per loro natura non sono sintetiche, ma analitiche. La predetta rinuncia ha causato non soltanto una commistione innaturale e spesso confusionaria del metodo di ciascuna sfera, credendo la politica di poter adottare soltanto il metodo analitico delle scienze biomediche, e credendo queste ultime di poter a loro volta adottare il metodo sintetico tipico della politica, ma per di più ha svelato la fragilità della politica come scienza dinnanzi alla forza – non di rado arrogante – della scienza come politica.

Nel momento in cui, infatti, le risultanze biomediche sulla gestione del virus sono state tradotte automaticamente in provvedimenti che hanno inciso sulla vita sociale e individuale di ogni cittadino e di ogni popolazione, senza una ulteriore riflessione da svolgersi all’interno della tipica dialettica politica, secondo gli schemi ordinari delle moderne democrazie, la scienza ha espresso tutto il suo altissimo potenziale politico, mentre la politica ha svelato tutta la sua incapacità di assumersi la responsabilità decisionale preferendo abbandonarsi al paradigma tecnicistico in base al quale i tecnici sono sempre maggiormente in grado di scegliere per il bene della cosa pubblica. Sotto il secondo aspetto, cioè il rapporto tra conoscenze biomediche e diritti individuali, si è assistito a una analoga vicissitudine.

I diritti, durante la gestione pandemica, perfino quelli fondamentali e costituzionalmente garantiti, non sono più stati tutelati giuridicamente di per sé stessi, come ci aspetterebbe in un normale contesto giuridico, ma anch’essi, come la sfera politica, sono stati subordinati – in modo del tutto inedito all’interno dell’alveo della storia e della tradizione giuridica occidentale – alle risultanze biomediche. C’è di più: i diritti non soltanto e non semplicemente sono stati subordinati alla risultanze biomediche, ma – perfino quelli fondamentali che in quanto tali non potrebbero e dovrebbero subire tale tipo di ridimensionamento – il loro godimento ed esercizio è stato subordinato e condizionato dal soddisfacimento dei requisiti – sempre diversi e sempre cangianti – che di volta in volta le autorità sanitarie hanno ritenuto che si dovessero soddisfare: prima l’isolamento, poi il tampone, quindi il green pass, dopo il super green pass e così via.

Insomma, se la sfera politica è stata fagocitata dalla prospettiva tecnicistica, la sfera giuridica è stata assorbita da quella scientistica che per l’appunto ha sottomesso il diritto alla scienza – intesa come unico criterio epistemico di lettura della realtà pandemica – e i diritti alle disposizioni delle autorità sanitarie indipendentemente dalla natura e dalla rilevanza dei diritti medesimi coinvolti come a maggior riprova si desume dall’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale con le recenti pronunce n. 14, n. 15 e n. 16 del 2023 in tema di vaccini anti-covid. Sotto il terzo aspetto, infine, cioè il rapporto tra governanti e governati, è anch’esso mutato durante la gestione pandemica, poiché i primi non sono stati più intesi come i rappresentanti dei secondi, secondo l’ordinario schema della democrazia rappresentativa, ma ne sono diventati i custodi, secondo il paradigma del paternalismo politico-sanitario. Il rapporto tra governanti e governati, in sostanza, non è stato più regolato dal principio di legittimità in base al quale i primi operano legittimamente in quanto rappresentanti dei secondi, ma è stato regolato dal principio di sanità in base al quale ai secondi è consesso uno spazio di libertà soltanto in virtù dei requisiti sanitari sanciti dai primi.

In tale contesto, dunque, i governanti non si sono più sentiti subordinati al “mandato” politico dei governati, come ordinariamente dovrebbe avvenire in una democrazia rappresentativa, e questi ultimi, a loro volta, sono stati intesi come dei minorenni a cui impartire istruzioni su ogni più singolo dettaglio della propria vita individuale e collettiva, o come dei minorati a cui celare informazioni necessarie perché non in grado di comprendere la realtà e al fine di tutelare la loro esistenza biologica. Proprio questi due ultimi fattori, cioè il controllo di ogni aspetto della vita e la dissimulazione della realtà, rappresentano il fil rouge tra l’aspetto della pandemia come problema biopolitico e la tendenza della gestione pandemica a indulgere verso un sistema sostanzialmente totalitario come si avrà modo di riflettere nella seconda parte.

Aggiornato il 19 aprile 2023 alle ore 12:30