Ritratti. Tre anni senza Kobe Bryant

Esistono personaggi che lasciano il segno. E ci sono situazioni e momenti da cui non ne usciremo mai. Un po’ come essere prigionieri all’interno di un labirinto dell’anima, tanto immaginario quanto reale.

Kobe Bryant non c’è più da tre anni, cioè da 1095 giorni. I minuti e i secondi possiamo non contarli. Perché il tempo sembra essersi fermato al 26 gennaio 2020, al viaggio in auto con la radio accesa, con il palinsesto in programma che si blocca e la trasmissione che subisce una brusca frenata, mentre sale in superficie una raffica di notizie, che procedono incontrollate. Un incidente aereo, che si tramuta in tragedia: la conta dei morti, le vittime e i nomi. Tra questi, Kobe Bryant (42 anni) e la figlia Gianna, non ancora quattordicenne.

Cinque campionati Nba vinti con la maglia dei Los Angeles Lakers, due ori olimpici con la nazionale statunitense di basket, uno dei giocatori considerati tra i più forti della storia della pallacanestro, portatore sano della Mamba mentality, un insieme di passione, desiderio di competere, assenza di paura, voglia di vincere. Del personaggio, delle sue vittorie e della cronaca di quei tragici eventi viene scritto di tutto. Il giornalista Flavio Tranquillo, per trovare uno spiraglio nella nube che piomba nel panorama sportivo e non, prende in prestito una frase di Alberto Moravia utilizzata dopo il delitto di Pier Paolo Pasolini: “Mi ronza in testa: voi non lo sapete, ma quando muore un poeta è un dramma per tutti'. Kobe Bryant è stato un Poeta per tutto lo sport mondiale, uno che ispira. Per fortuna rimane il suo lascito, non solo le partite ma anche tutto il resto”.

Ma c’è anche il Kobe Bryant “italiano”, in viaggio tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia, al seguito del padre, Joe, anch’egli cestista. È un legame indissolubile con il nostro Paese. Per tante ragioni: la normalità, girare in bicicletta, le passeggiate in centro. Che lo stesso Bryant ricorda. Una volta, per esempio, racconta che quella normalità non sa come spiegarla alle sue figlie, perché a “Los Angeles non esiste questa possibilità”.

Già, normalità. Che accostata a Kobe Bryant fa quasi specie. Ma che allo stesso tempo rende umano chi, invece, è celebre per uscire fuori dall’ordinario. Un alieno a cui manca la condivisione dei piccoli gesti, come confida a degli amici di Reggio Emilia in una delle sue ultime visite: “Voi siete gli ultimi che hanno scelto di prendere un gelato con me perché ero Kobe, non Kobe Bryant. Adesso non capisco più chi c'è vicino a me, e perché è vicino a me”. Di questo, e di molto altro, ne parla il documentario Kobe-una storia italiana, diretto da Jesus Garcés Lambert, scritto da Giovanni Filippetto e prodotto da Alessandro Lostia per Indigo Stories, usciti a settembre sulla piattaforma Prime di Amazon.

Una storia infinita, perché eterna. Come la lettera d’addio al basket di Bryant. Una lettera da premio Oscar (per Dear Baskteball, miglior cortometraggio d’animazione). Una lettera dove è anche difficile mettere un punto. Perché l’infinito non ha confini: “… Hai regalato a un bimbo di 6 anni il sogno di essere un giocatore dei Lakers e ti amerò sempre per questo. Ma non posso amarti ossessivamente ancora per molto tempo. Questa stagione è l’ultima. Il mio cuore può reggere il colpo. La mia mente può sopportare lo sforzo. Ma il mio corpo sa che è il momento di dire addio. Ma va bene così. Sono pronto a lasciarti andare. Volevo che tu lo sapessi, cosicché potremo assaporare meglio ogni momento che ci rimarrà da gustare assieme. Le cose belle e quelle meno belle. Ci siamo dati l’un l’altra tutto quello che avevamo. Ed entrambi sappiamo che non importa cosa farò dopo. Sarò sempre quel bambino con i calzettoni tirati su. Con il cestino dei rifiuti in un angolo. Con 5 secondi ancora sul cronometro. La palla nelle mani. 5… 4… 3… 2… 1. Ti amerò sempre. Kobe”.

Aggiornato il 27 gennaio 2023 alle ore 20:55