Argentina e dollarizzazione

A sorpresa, Javier Milei è il nuovo presidente argentino. L’ultraliberista ha tra le proposte più eclatanti la sostituzione del peso argentino con il dollaro Usa. L’idea, tuttavia, non è nuova e se ne è già ampiamente discusso negli anni Novanta. In quel periodo, sotto la guida del ministro dell’economia Domingo Cavallo, il Paese ingaggiò una lotta all’inflazione che ebbe un rapido ed inaspettato successo, portando l’Argentina, dopo un decennio, sul sentiero della ripresa economica.

La chiave della ripartenza fu il cambio a 10mila austral (la moneta argentina del tempo) per 1 dollaro, valore al quale ognuno poteva convertire i propri austral in dollari. Per assicurare la convertibilità, la Banca centrale argentina dovette mantenere riserve in dollari in quantità pari alla moneta in circolazione. Lo scopo iniziale di queste misure era di assicurare l’accettazione della moneta nazionale, che durante i periodi di iperinflazione era rifiutata da molti, che preferivano usare il dollaro.

Questo principio diventò poi legge che ripristinò il peso come moneta argentina, con un tasso di cambio fisso verso il dollaro. I risultati della legge furono una riduzione drastica dell’inflazione, la stabilità dei prezzi ed una valuta stabile. Ciò ebbe effetti positivi sulla qualità della vita per molti cittadini che poterono di nuovo viaggiare all’estero, acquistare beni d’importazione e chiedere crediti in dollari a tassi di interesse bassi.

Dunque, la scelta del nuovo presidente non è affatto nuova e mira a risolvere uno dei principali problemi che affligge il Paese, ovvero l’inflazione, che è attualmente pari al 12,7 per cento al mese, ma anche a scongiurare la perdita di fiducia nella moneta nazionale e la fuga di capitali. La logica dietro la dollarizzazione, dunque, è chiara: eliminare il rischio di svalutazione improvvisa, aumentare la fiducia degli investitori esteri, ridurre il servizio del debito e stimolare la crescita economica.

Per inciso, l’Argentina non è l’unico Paese “dollarizzato”: attualmente si contano undici Stati che hanno soppiantato la propria moneta con il dollaro statunitense. In America Latina ci sono già Ecuador e Salvador, in Africa lo Zimbabwe. Ma l’Argentina sarebbe quello più esteso e popolato a adottare il sistema. Di certo, una manna per gli Usa, che vedrebbero accrescere la domanda della loro moneta e, per tale via, scontare una riduzione dell’enorme debito pubblico.

A ben vedere, infatti, l’evento è in netta controtendenza con il processo di de-dollarizzazione che vede molti Paesi al mondo ridurre la dipendenza dal dollaro americano (Usd) nelle transazioni commerciali internazionali e nelle riserve di valuta estera. Si osserva che questo può avvenire attraverso una serie di misure, tra cui l’utilizzo di altre valute come l’euro o lo yuan cinese, lo scambio di beni e servizi senza l’uso del dollaro o l’accumulo di riserve in valuta estera in altre valute.

La questione della de-dollarizzazione è diventato un tema di discussione importante negli ultimi anni, in parte a causa delle tensioni commerciali e politiche tra gli Stati Uniti ed altri Paesi come, in particolare, la Cina, la Russia e l’Iran. Il protrarsi del conflitto in Ucraina e l’esplosione del conflitto in Medio Oriente non fanno altro che accelerarne il processo.

Dal 2014, quando gli Stati Uniti hanno imposto restrizioni economiche alla Russia e creato ostacoli al suo commercio in dollari, i Paesi hanno iniziato a pensare ad alternative per evitare l’uso del dollaro. Anche l’introduzione dell’euro ha aiutato i Paesi a rompere il monopolio del dollaro Usa. Negli ultimi otto anni, sempre più stati hanno stipulato accordi bilaterali per evitare una situazione simile a quella della Russia.

Inoltre, la crisi pandemica di Covid-19 ha portato ad un aumento del debito negli Stati Uniti ed un allentamento della politica monetaria. La Cina, inoltre, ha aumentato l’uso dello yuan nelle transazioni commerciali internazionali, e la Russia ha ridotto significativamente la sua esposizione al dollaro. Altri Paesi come l’India ed il Giappone hanno anche iniziato ad esplorare alternative alla valuta americana.

Di conseguenza, non solo la circolazione totale del dollaro Usa nel mondo è diminuita significativamente, ma anche le scorte. Secondo una stima, il commercio globale del dollaro Usa è diminuito di oltre il 20 per cento solo negli ultimi 4 anni e, si prevede che l’uso globale del dollaro come valuta, possa scendere ulteriormente al 40-45 per cento nei prossimi 2-3 anni. 

È evidente che l’elezione di Milei, allontana l’Argentina dall’area dei Brics, dove sembrava dover presto confluire, e lo riavvicina agli Usa e, in definitiva al blocco occidentale. Ma attenzione, l’inflazione Argentina trova la sua ragione principalmente nella monetizzazione del debito pubblico: a seguito del default del 2020, il Paese non ha più potuto finanziarsi sui mercati internazionali e la Banca centrale argentina ha dovuto stampare pesos per coprire la spesa statale. Gli argentini, dunque, nel caso di una forzata dollarizzazione, si troverebbero privi dell’utilizzo della politica monetaria e, quindi, della possibilità di mantenere il sistema di sovvenzioni pubbliche, che ha permesso in questi anni di mantenere una certa stabilità sociale.

È probabile che nei prossimi mesi, se il programma di Milei sarà effettivamente messo in atto, avremo una Argentina molto più instabile, con un probabile rialzo degli indici sulla povertà che già ora ha raggiunto la soglia del 38,9 per cento della popolazione (Rapporto dell’Osservatorio sul debito sociale dell’Università Cattolica Argentina, settembre 2023), il che vuol dire, in definitiva, che attualmente ci sono circa 12,5 milioni di argentini che vivono in povertà. Insomma, ora se dobbiamo aspettarci una cura da cavallo sul modello cileno, è preoccupazione di tanti capire come reagiranno le masse popolari, che probabilmente subiranno il colpo maggiore. 

Come sappiamo il Cile è stato il primo vero laboratorio delle teorie neoliberiste a cui sembra ispirarsi Milei; quelle della Scuola di Chicago, dove Milton Friedman ha coltivato quei giovani economisti cileni che hanno dato vita ad una delle crescite del Pil più elevate del tempo. Nel Cile, oggi, tutto è privatizzato, dalla scuola alla sanità, dalla previdenza al welfare, ai beni comuni (acqua, energia, trasporti) e, tanto nei settori industriali (rame, legname, energia, salmone) quanto nella distribuzione e nel commercio, dominano le multinazionali.

L’assenza di politiche distributive ha determinato, nonostante la crescita miracolosa ed incessante del Pil, un popolo povero, che sembra affogare nel debito privato che è stato contratto per l’istruzione, la salute e la previdenza. Sarà così anche per l’Argentina?

(*) Direttore del Dipartimento di Scienze politiche della delegazione di Roma di UniPeace-N.U.

Aggiornato il 27 novembre 2023 alle ore 09:41