Ita-Lufthansa: se un’idea astratta di concorrenza rafforza lo statalismo concreto

Se un’interpretazione troppo rigida del diritto europeo della concorrenza obbliga lo Stato a mantenere la sua ingombrante presenza sul mercato, sta davvero facendo l’interesse dei consumatori? È una domanda retorica, che però viene spontaneo porsi alla luce delle obiezioni poste dalla Commissione europea all’acquisizione di Ita da parte di Lufthansa.

Breve riassunto: il Governo italiano è di fatto subentrato alla precedente proprietà di Alitalia nel 2017, prima con una serie di prestiti (in parte sanzionati da Bruxelles come aiuti di Stato illegittimi), e poi col commissariamento. A quel punto si è costituita Ita, formalmente in discontinuità con la vecchia gestione, anche per evitare la restituzione degli aiuti. E si è avviato il percorso per la privatizzazione, dal quale sono emerse due opzioni: la cordata guidata da Lufthansa e quella messa assieme da diversi operatori finanziari con il supporto industriale di Air France.

L’Istituto Bruno Leoni ha salutato con favore la decisione del Governo Meloni di accogliere l’offerta dei tedeschi, tra le altre ragioni, perché lasciava spazio a una più decisa e rapida fuoriuscita dello Stato, contrariamente alla proposta francese (che sembrava invece godere del favore del Governo precedente). Sembrava, quindi, che le cose stessero andando per il meglio quando hanno cominciato a girare le voci – poi confermate – che la Commissione avrebbe messo i bastoni tra le ruote. Bruxelles obietta sostanzialmente che la fusione porterebbe a una restrizione della concorrenza su tutte quelle rotte in cui, oggi, gli slot sono divisi tra Ita e Lufthansa.

Da un certo punto di vista, si tratta di una banalità: è ovvio che la riduzione del numero di operatori, con l’assorbimento di Ita da parte di Lufthansa, comporterà almeno in alcune tratte anche l’abbassamento della pressione concorrenziale. La domanda a cui rispondere è se i guadagni di efficienza resi possibili dal merger saranno superiori a tale perdita. La risposta è abbastanza chiara: così com’è, Ita non sta in piedi. Non sono riusciti a renderla profittevole i capitani coraggiosi, non ci sono riusciti gli azionisti esteri durante la gestione Etihad, non ci è praticamente mai riuscito lo Stato durante l’intera vita di Alitalia prima, di Ita poi. Il mercato, in sostanza, non è in grado di reggere un vettore con le caratteristiche di Ita. Nei fatti, la Commissione pretende di subordinare il via libera alla fusione alla cessione di slot corrispondenti a 4 milioni di clienti o 700 milioni di euro di ricavi (e forse più). Questo significa condannare l’intera operazione o, quanto meno, cambiarne fortemente i connotati: Lufthansa potrebbe confermare l’offerta solo rivedendola considerevolmente al ribasso, lasciando una quota maggiore del capitale in mani pubbliche.

Il mercato aereo italiano è fortemente concorrenziale e Ita occupa una quota di mercato minoritaria, soprattutto sulle rotte internazionali che sono anche le più profittevoli. In queste condizioni, l’elemento maggiormente distorsivo non sta nel numero di operatori che si contendono i passeggeri sulle singole rotte, ma nella presenza forte dello Stato, sia per mezzo della partecipazione diretta in Ita, sia per mezzo degli innumerevoli interventi a sua tutela (ricordate la campagna dell’estate scorsa contro le low cost?). Che la Commissione finisca per puntellare, nel nome della concorrenza, uno zombie pubblico, che perfino il Governo vorrebbe privatizzare, è a voler essere generosi eterogenesi dei fini. A essere più realisti, è il trionfo di una visione schematica, artificiale e semplicistica della concorrenza sulla realtà dei mercati.

Aggiornato il 05 aprile 2024 alle ore 10:18