Per non difendersi “dal processo” ci vuole un giudice giusto

Il nostro tempo si caratterizza, fra l’altro, per l’ossessiva ripetizione di frasi fatte, di slogan ribaditi in ogni dove e che, secondo chi li pronunci, dovrebbero sortire l’effetto di tacitare gli interlocutori di parere opposto: cosa che ovviamente raramente accade.

Uno di questi slogan, ripetuto dai giornali, attraverso le televisioni ed altri canali di comunicazione, afferma che gli imputati dovrebbero “difendersi nel processo e non dal processo”.

Di solito a ripeterlo sono i magistrati, i politici, i giornalisti che si collocano naturalmente nel solco del “politicamente corretto”, declamandolo con una sorta di saccente sicurezza, non esente da una punta di spavalderia istituzionale intrisa di ardore moraleggiante.

Eppure, a ben guardare, si tratta di una enorme sciocchezza.

Infatti, è la stessa storia del processo penale a dimostrare il contrario, perché le più gravi ingiustizie passate alla storia sono state consumate attraverso il processo e non fuori di esso.

Si pensi emblematicamente al celebre caso Dreyfus, il capitano ebreo condannato in Francia alla deportazione perpetua per spionaggio a favore dei tedeschi, pochi anni dopo la dolorosa (per i francesi) sconfitta di Sedan. La Francia non era certamente, alla fine dell’Ottocento, uno Stato dispotico, tutt’altro; tuttavia Dreyfus fu condannato da innocente nel nome di una ragion di Stato che si sposava con le istanze militariste. Ne fu prova il fatto che a Rennes, la camera di consiglio che lo giudicò ebbe la durata di tre minuti esatti di orologio: il che alimentò la forza polemica di Zola, il quale appunto assunse, davanti al mondo intero, la difesa di Dreyfus “dal processo” e non certo “nel processo”, dal momento che la sentenza di condanna era evidentemente già scritta prima di dare inizio alla riunione dei giudici.

La procedura dunque era stata rispettata in tutto e per tutto, nessuna irregolarità o violazione di norme processuali era stata consumata: ma quella procedura, quelle norme permisero la condanna di un innocente.

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, perché le più grandi nefandezze della storia furono consumate nel processo, attraverso il processo e non fuori di esso e sarebbe bene rammentarlo ai moralisti di casa nostra. Ma qui invece conta un altro aspetto: conta capire che nessuna procedura, per quanto perfezionata, potrà mai impedire al giudice ingiusto di manipolarla a suo arbitrio.

Per questo, accapigliarsi per mesi o per anni dietro un aggettivo da inserire in una norma (gli indizi debbono essere gravi oppure gravissimi?) oppure dietro un numerino (la improcedibilità la facciamo sorgere dopo due anni o dopo tre?) si fa cogliere – non me ne voglia la ministra Marta Cartabia – come una vera fatica di Sisifo: fatica inutile, sprecata, una sorta di superfluo gioco da bambini cresciuti troppo in fretta che non si accorgono del mondo reale intorno a loro.

Si tratta invero del fenomeno messo in luce molti anni or sono dal politologo Ernst Fraenkel, il quale molto opportunamente parlava di “doppio Stato”, per indicare come anche se le procedure fossero improntate ai principi dello Stato di diritto, fossero pienamente democratiche, ugualmente esse lascerebbero ampi spazi di discrezionalità e in definitiva di arbitrio a chi sia chiamato a governarle, i giudici: da qui una inevitabile doppiezza del sistema, formalmente democratico, in realtà arbitrario.

E da qui ovviamente la necessità di difendersi “dal processo”, cioè dal giudice che attraverso il processo potrebbe consumare una ingiustizia.

Ed ecco perché Platone preferiva di gran lunga il giudice giusto rispetto ad ogni altra procedura pur raffinata: senza di questa permane sempre la “possibilità della ingiustizia”, sempre presente nell’esperienza umana; ma senza di quello si apre la porta alla “impossibilità della giustizia”, effetto enormemente più grave e devastante.

Ovviamente, la figura del giudice giusto va letta qui non in senso assoluto, ma in controluce al suo riferimento negativo, il giudice ingiusto.

Per questo, qui basterà notare in modo succinto e approssimativo il profilo di questo, per poi scorgere in modo positivo il profilo di quello.

Diremo dunque che ingiusto non è soltanto quello corrotto o politicizzato; è anche il giudice pieno di sé, votato alla sicumera, convinto di esser capace lui soltanto di aggiustare le cose, incline a vedere negli avvocati gente che lo vuole gabbare – ma a lui, che è furbo, non gliela si fa – sensibile alle logiche correntizie e corporative, sostanzialmente autoreferenziale, insofferente alle esigenze delle parti e dei difensori: purtroppo esempi di tipi umani di questo genere fra i giudici in servizio non mancano.

In senso contrario, diremo invece giusto il giudice che sia consapevole dei propri limiti, timoroso del potere che pur deve usare, consapevole di esser esposto all’errore, che insomma ascolta prudentemente e pazientemente tutti gli attori del processo con sensibilità umana e giuridica allo scopo di decidere sempre “con timore e tremore”: anche esempi di questi tipi umani per fortuna non mancano fra i giudici in servizio, ma sembrano ad esaurimento.

E bisogna purtroppo rilevare come gli aspetti qui citati – quelli della formazione della coscienza giudicante – siano oggi completamente negletti e perfino ignorati dal legislatore, dalle Università, dai politici.

In questa prospettiva, si capisce allora perché la più raffinata delle procedure, nulla potrà garantire se governata da un giudice ingiusto, che se ne farà insindacabile arbitro (basta, per esempio, non ammettere un teste a difesa di importanza essenziale, per aprire la strada verso una condanna pressoché certa); mentre, al contrario, la peggiore, la più rabberciata ed approssimativa delle procedure, nelle mani di un giudice giusto, sarà in grado di garantire i diritti di tutti.

Ne viene che la presenza di giudici ingiusti rende necessaria la difesa “dal processo e non nel processo”, perché quest’ultima sarebbe del tutto inutile.

Di converso – come notava il compianto Lanfranco Mossini, che non a caso dedicò molta attenzione alla figura biblica di Salomone (e non alle sue procedure) – chi riuscisse ad assicurarsi un giudice giusto non dovrà di altro preoccuparsi: il resto verrà da sé.

Con qualsivoglia procedura.

Aggiornato il 08 agosto 2021 alle ore 09:43