L’errore di Fukuyama: la Storia non ha mai fine

C’era una volta l’illusione visionaria alla Francis Fukuyama, che annunciava solennemente l’avvento della “democrazia liberale come ideologia dominante e forma finale di ogni governo umano”, da lui formulata per la prima volta in un saggio del 1989. Certo, sempre perfettibile ma, come ebbe a dire Winston Churchill: “La Democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre”. Allora, perché la Storia attuale ha violentemente rimesso in discussione tutto ciò che sembrava definitivamente sepolto nel passato, oggi riemerso con la forza e la violenza di una durissima e sanguinosa guerra convenzionale alle porte d’’Europa, scatenata dalla Russia del nuovo Zar Vladimir Putin? Perché Fukuyama, pur essendo un allievo di grande talento di Samuel Huntington, non ha corretto il tiro dopo il saggio del suo maestro Le choc des Civilisations del 1996, in cui si sosteneva che i futuri conflitti sarebbero avvenuti lungo le “linee di faglia” che delimitano le grandi civilizzazioni tra di loro incompatibili, come l’occidentale, l’islamica, la confuciana e così via? Più di recente, John Mearsheimer doppiava il Capo Horn dell’assunto huntingtoniano con il suo The Tragedy of Great Power Politics del 2001, in cui descriveva un mondo multipolare invariabilmente alla mercé dei conflitti tra grandi potenze per ragioni di sicurezza. Ipotesi che è stata pienamente confermata il 24 febbraio 2022 dalle motivazioni poste da Vladimir Putin a sostegno della sua recente “Operazione Speciale” contro l’Ucraina, rea di voler portare i confini Nato direttamente a ridosso delle frontiere della Russia, minacciando così gli “interessi vitali della Nazione”.

Del resto, la tesi di Fukuyama è stata sfidata prima dall’attacco alle Torri Gemelle del 2001 e di recente dall’insorgenza dello Stato Islamico, per poi scontrarsi con l’ascensione della Cina sulla ribalta mondiale e il ritorno della Russia tra le grandi potenze. Quest’ultime, entrambe acerrime rivali dell’America e dell’Occidente, ai quali intendono contrapporsi ideologicamente, seppur nel quadro di un’ideologia frammentata e disomogenea. Ma qui, ancora una volta, interviene in diretta Fukuyama, con la sua lunga intervista al settimanale francese L’Express, a difendere la sua creatura ideologica, ribadendo come la sua tesi, in realtà, si possa considerare valida ancora oggi in quanto, oggettivamente, l’attuale Global South non è portatore di un’ideologia coerente, al contrario del Global West con la sua liberal-democrazia. Tanto più, osserva il grande politologo, che la Russia ha abbondantemente perso la faccia con il protrarsi dell’invasione all’Ucraina in una disastrosa guerra di attrito, mentre Xi Jinping viene dalla disfatta epocale della sua fallimentare strategia di Zero-Covid. Ed è proprio la resistenza dell’Ucraina all’aggressione del gigante russo dai piedi di argilla, e il rifiuto di Taiwan a sottomettersi all’altro Dragone mondiale, a confermare l’omogeneità planetaria dell’ideologia liberal-democratica. Smentendo così, una volta per tutte, la presunta “superiorità” autocratica nei confronti delle democrazie occidentali, dato che Cina e Russia hanno mostrato apertamente a tutto il mondo le inefficienze gravi dei loro regimi, resi ciechi dai limiti irrazionali di un potere che tende progressivamente a concentrarsi nelle mani di uno solo, il Leader Maximo.

Concetti che Francis Fukuyama ribadisce con forza nel suo ultimo saggio del 2022, dal titolo (in italiano): “Il liberalismo e i suoi oppositori”. Il libro è un’appassionata difesa del liberalismo classico, fondato sulla tolleranza e la moderazione, i soli strumenti virtuosi, a suo avviso, capaci di gestire pacificamente società sempre più diversificate tra di loro. Tuttavia, avverte Fukuyama, le democrazie sono oggi minate e assediate al loro interno da due fattori di destabilizzazione: il populismo di destra, da un lato, e gli eccessi del neoliberalismo, dall’altro, che hanno dato luogo alla deriva identitaria progressista di sinistra che prende il nome di “wokismo”, che include il politically correct e la cancel culture, fondate sull’esasperazione della parità culturale tra etnie minoritarie e quella “white” dominante, nonché sulla difesa dei diritti delle minoranze di genere. A partire dal marzo 2022, Fukuyama non ha fatto altro che insistere sul fatto che la probabile sconfitta della Russia in Ucraina avrebbe implicazioni positive immense per l’evoluzione democratica nel mondo. Per quanto riguarda la possibilità di escalation in Ucraina da parte di Putin con l’impiego di armi nucleari tattiche, Fukuyama la ritiene una fake news, dato che, in base alla sua stessa propaganda, Putin non potrebbe mai utilizzarla in un territorio che lui stesso dichiara di essere parte integrante della Russia e, per di più, dovrebbe affrontare con un esercito russo già allo stremo delle forze la conseguente, durissima, reazione convenzionale della Nato.

Per Fukuyama, sottoscrivere ora un accordo di pace con Putin equivarrebbe a una sorta di tregua che gli consentirà di riarmarsi, per riprendere con ancora maggiore determinazione la guerra iniziata il 24 febbraio 2022. E nemmeno c’è da sperare in una rivolta popolare contro di lui, dato che Putin è riuscito a portare dalla sua parte un popolo intero, convincendolo di combattere una guerra difensiva e patriottica. Il sistema russo, com’è noto, si basa su di un possente apparato repressivo per mettere a tacere qualsiasi forma di dissenso, imprigionando con false accuse gli oppositori. Sarà difficile per l’economia russa sostituire a breve l’indispensabile tecnologia occidentale con quella cinese, sempre che Xi Jinping si arrischi a sfidare le sanzioni occidentali per sostenere l’industria militare di Putin. E solo una chiara sconfitta militare potrebbe provocare una crisi dall’interno del regime russo.

Ma anche quello cinese non sta messo meglio. In fondo, osserva Fukuyama, è a partire dal 2008 che le cose vanno abbastanza male per Pechino, come lo si è clamorosamente visto con la grave crisi socio-economica (e politica) in conseguenza della fallimentare strategia di “Zero-Covid”, voluta in prima persona da Xi Jinping. Infatti, per la prima volta nella storia del Partito Comunista cinese si è assistito alla protesta di massa contro la strenua difesa dei responsabili amministrativi comunisti sulle chiusure a oltranza e sui lockdown a ripetizione, che hanno imprigionato molte decine di milioni di abitanti, chiudendoli in casa nelle loro megalopoli. E, per di più, sta esplodendo in Cina l’immensa bolla immobiliare e dei grandi lavori pubblici (fenomeno quest’ultimo già ampiamente analizzato di recente da questo quotidiano): enormi complessi immobiliari divenuti altrettante cattedrali nel deserto per difetto di domanda, a causa, da un lato, di una popolazione che invecchia aumentando il carattere stanziale della cittadinanza e, dall’altro, di un calo poderoso delle nascite. Conclusione: nei prossimi anni l’economia cinese crescerà in media meno del 3 per cento all’anno. Alla domanda se ci sarà o meno una guerra Usa-Cina per Taiwan, Fukuyama è netto: un conflitto sarebbe una catastrofe per il mondo intero, visto il ruolo di primissimo piano della Cina nel quadro di un’economia globalizzata.

Per dissuadere Xi Jinping da un simile azzardo, l’Occidente si deve far trovare unito e deciso nel contrastare con forza la minaccia cinese d’invasione dell’Isola, come sta accadendo oggi in Ucraina, in modo da far capire agli Autocrati assoluti di Russia e Cina quale sia il prezzo reale da pagare, in termini di vite umane e di immenso spreco di risorse materiali e finanziarie, compresa l’interruzione degli scambi commerciali a livello planetario. Sulla questione d’insieme delle Autocrazie nel comporre un mosaico ideologicamente coerente come alternativa all’assunto fondamentale di Fukuyama, in base al quale “nessuna ideologia con la pretesa di universalità è oggi in grado di sfidare sullo stesso piano la liberal-democrazia”, il famoso politologo risponde in modo articolato negandone il fondamento. Questo perché, sul versante cinese, Xi governa un Paese anni luce distante dal maoismo e dal marxismo-leninismo, avendoli svuotati dall’interno del nucleo “pesante” della relativa teoria economica, sostituita da una forma originale di “capitalismo di Stato”, solo in parte rivolto al libero mercato, ma sostanzialmente governato in modo ferreo dal Partito Comunista. E ancora peggio va nel caso della Russia, dato che Putin ha messo nello stesso calderone ideologico nazionalismo russo, religione ortodossa, nostalgia sovietica e, più di recente, l’anti-wokism e l’antigender Lgbtq. Queste ultime due componenti ideologiche “da vendere” ai conservatori occidentali per ottenerne solidarietà politica.

In conclusione, verrebbe da chiedere a Fukuyama se le prossime mosse, in un certo senso destabilizzanti rispetto all’ordine mondiale attuale, della neo-coalizione euroasiatica, Russia più Cina, potrebbero essere meramente economiche e non militari, come la creazione di un sistema “Swift” (per la validazione delle transazioni infra-bancarie internazionali) e di un paniere di monete la cui unità di conto si contrapponga alla forza del dollaro nel fissare il prezzo delle materie prime e dei beni manifatturieri sui mercati internazionali degli scambi. Lasciamo il messaggio in bottiglia, nella speranza che arrivi sulla scrivania del professore.

Aggiornato il 28 marzo 2023 alle ore 10:41