“Molte persone vedono l’impresa privata come una tigre feroce, da uccidere subito. Altre invece come una mucca da mungere. Pochissime la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che, in silenzio, traina un pesante carro”. L’aforisma di Winston Churchill (quello vero) scolpisce con definitiva nitidezza una verità che dovrebbe essere nel bagaglio intellettuale di base di chiunque si trovi a ricoprire incarichi di governo, specie in contingenze di grave difficoltà come quella attuale. Il blocco generalizzato imposto all’apparato produttivo (per altro sulla base di evidenze sanitarie tutt’altro che univoche e concordi del direttorio medico cui l’esecutivo ha “appaltato” le proprie prerogative di governo) in esito all’emergenza Coronavirus, se è certamente foriero di pesantissime ricadute sul piano economico potrebbe e dovrebbe essere occasione per un approfondito ripensamento degli assetti normativi, specie in ambito fiscale, che, per tornare alla metafora del cavallo, già rendevano oltremodo pesante il carro da trainare.

Non si può infatti negare che la crisi sanitaria interviene ad aggravare un quadro economico già pesantemente penalizzato da una lunga fase (iniziata, guarda caso, con l’ingresso nell’eurozona, ma questo, come direbbe Rudyard Kipling, è un altro discorso) di crescita asfittica, decrescita dei redditi e dei consumi e da un carico tributario che definire “castrante” è un garbato eufemismo. L’economia è sostanzialmente ferma ed il rischio di desertificazione industriale e depressione economica (stile America anni Venti) è tutt’altro che peregrino anche avuto riguardo al fatto che i nostri principali competitors internazionali hanno già messo in atto concrete misure di salvaguardia dell’apparato produttivo e delineato piani di ripartenza (Austria in primis) tali da aumentare ancora di più il già sensibile gap preesistente all’emergenza Covid-19.

Se è vero che “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva” (per usare le parole di Friedrich Hölderlin), la drammatica contingenza corrente suggerirebbe, ora o mai più, di mettere mano a misure coraggiose in grado di liberare il fenomenale potenziale di inventiva, creatività, produttività ed innovazione dell’imprenditoria italiana partendo, innanzitutto, da una sensibile riduzione del carico fiscale ed un drastico sfoltimento di adempimenti e impedimenti burocratici (sia a livello domestico che in deroga alle, spesso cervellotiche, normative Ue). Ipotizzare di uscire dal pantano mantenendo il carico fiscale complessivo sulle aziende (il Total Tax & Contribution Rate), al 59,1 per cento dei profitti commerciali a fronte di un ‘peso’ globale del 40,5 per cento ed europeo del 38,9 per cento (rapporto Paying Taxes 2020, pubblicato da Banca mondiale e PwC), è suicidariamente illusorio, né si può razionalmente sostenere che i pur necessari investimenti pubblici (in infrastrutture, grandi opere e digitalizzazione) possano sostituire (soprattutto in termini occupazionali) la spina dorsale di piccole e medie imprese che sostiene (anche fiscalmente) il sistema Italia.

Se nell’immediato è necessario salvaguardare la sopravvivenza delle imprese con concessione di erogazioni a fondo perduto (non con prestiti garantiti che garantiscono solo quelle banche già beneficiarie di onerosissimi salvataggi a spese del contribuente) e con la cancellazione (non sospensione) degli obblighi fiscali per tutto il 2020; in prospettiva è ineludibile creare senza ritardo un habitat normativo e tributario tale da consentire al famoso “cavallo” di correre tirandosi dietro non un carro carico di sprechi, spesa improduttiva ed assurdità fiscali (gli “acconti” , l’inversione dell’ordine della prova, il “Solve et repete” tanto per citarne alcune) ma un agile e leggero calesse le cui ruote dovrebbero essere: Flat tax, sburocratizzazione, accesso al credito, internazionalizzazione e innovazione tecnologica. Solo un nuovo boom economico potrà salvare l’Italia e preservare i livelli di benessere raggiunti, per attuarlo occorrono però uomini e donne dotati di visione e coraggio politico non i fautori del dirigismo statalista e dell’anticapitalismo ideologico né, tantomeno, gli sconsiderati aedi della decrescita felice.

Aggiornato il 21 aprile 2020 alle ore 12:15