Bersani, Calenda e il liberismo

Carlo Calenda lo prendo anche volentieri, ma non so se lui sarebbe disposto a prendere me. Esordisce così il fondatore di Articolo Uno, nonché ex segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani. Il leader di Azione – aggiunge – deve convincersi dell’esistenza della destra e della sinistra, perché in politica lo scontro è tra queste due fazioni, non tra “pragmatici” e “populisti” come invece vorrebbe lui. In secondo luogo, deve lasciar perdere l’idea di un “Governo dei migliori” secondo la logica platonica, che non porta mai a nulla di buono.

Si lascia poi andare ad alcune riflessioni sul futuro del centrosinistra: immagina una coalizione plurale e variegata, formata da tante anime, capaci però di ricompattarsi sui punti essenziali e di dar vita a un programma unitario – che abbia la sua base nella difesa del lavoro – per poi allargare il campo anche al Movimento Cinque Stelle. Quello che avrebbe in mente Bersani, insomma, è un vero e proprio fronte progressista e sociale, da contrapporre alla destra.

Tuttavia, è solo esponendo la sua posizione sul decreto-legge sulla concorrenza, attualmente in discussione in Parlamento, che l’ex segretario del Partito Democratico dà il meglio di sé con una simpatica arrampicata sugli specchi, in cui sembra voler lanciare un attacco neanche troppo velato al nascente “calendismo”. Il decreto, agli occhi di Bersani, non conterrebbe nulla capace di favorire i comuni cittadini. Questa non è liberalizzazione, dice lui, che fu autore della legge sulle liberalizzazioni, ai tempi in cui era ministro dello Sviluppo economico, sotto il Governo Prodi. Liberalizzare – sostiene Bersani – non significa affidare al mercato tutto quello che si può: questo è liberismo, che è di destra e che è un’altra cosa. Liberalizzare vuol dire difendere il comune cittadino dalla prepotenza del mercato e fare in modo che non ci siano posizioni dominanti.

Andiamo con ordine. Tanto per cominciare – per l’idea che mi sono fatto di Carlo Calenda da quando ho iniziato a seguire con vivo interesse e con una certa attenzione il suo progetto politico – è molto difficile che un riformatore come il leader di Azione, che sembrerebbe intenzionato a innovare profondamente questo Paese, includa tra i suoi uno come Pier Luigi Bersani. Non per la persona – umanamente anche molto simpatica – ma perché troppo ideologizzato e politicamente “retrivo”, attaccato cioè a concezioni, idee e parole d’ordine stantie, come ha dimostrato in queste poche battute. Bersani è tra coloro che ragionano ancora in termini di destra o sinistra, convinti che questi due termini abbiano ancora un significato rilevante nel mondo di oggi. Difendere il sistema di welfare è di destra o di sinistra? Di sinistra, risponderebbe Bersani. Ma basterebbe pensare che Giorgia Meloni non mette meno vigore nella difesa della sanità pubblica, piuttosto che dei sussidi elargiti ai bisognosi. Difendere il progetto di integrazione europea è di destra o di sinistra? Di sinistra, risponderebbe nuovamente Bersani. Sebbene Silvio Berlusconi non sia un promotore meno entusiasta di un cammino sempre più spedito verso la Federazione europea, con una difesa e una politica estera comune. Questo vuol dire che probabilmente ha ragione Calenda: la vera dicotomia, oggigiorno, non è più tra destra e sinistra, ma tra responsabilità e dissennatezza; tra realismo e ideologia; tra pragmatismo e idealismo; tra ragionevolezza e demagogia. Si capisce, quindi, come destra e sinistra siano diventati termini sempre più “accessori” e colloquiali.

Di conseguenza, nonostante Calenda non abbia mancato di lanciare dei segnali di interesse nei riguardi dell’ex segretario del Partito Democratico – elogiando proprio le sue liberalizzazioni ai tempi in cui sedeva al vertice del dicastero di via Molise – è improbabile che quest’ultimo, con una simile mentalità, trovi spazio all’interno di un raggruppamento che si propone di portare a termine le riforme di cui abbisogna l’Italia, in un’ottica di continuità col Governo di Mario Draghi. Per quanto riguarda il “Governo dei migliori” non è un’idea esclusivamente platonica. Personalmente preferisco chiamarla “legge dell’élite”, secondo una nota teoria di Vilfredo Pareto.

I membri di una élite, spesso, sono davvero i membri migliori di una società; quelli che sono stati premiati dal processo di selezione che naturalmente si dà all’interno di una società; che, in virtù della loro miglior preparazione e disposizione, riescono a raggiungere ruoli apicali. Costoro non solo sono legittimati a governare un Paese, ma è auspicabile che lo facciano, proprio perché in possesso delle conoscenze e delle competenze necessarie per farlo bene. Nessuno di noi si affiderebbe la propria salute a un medico che sa essere un incompetente, proprio come nessuno di noi affiderebbe i propri risparmi a un consulente o a un intermediario che sappiamo non essere dei migliori. Non si capisce sulla base di cosa, allora, non dovremmo affidare il nostro Paese a governanti esperti e competenti, o che si siano dimostrati tali in altri ambiti, come quello economico. Non ha senso immaginare un “Governo di tutti”, perché la politica e il buongoverno – non meno delle altre arti – richiedono una preparazione e una conoscenza che non tutti possiedono. Pensare a un “Governo di tutti” è come pensare che ciascuno dovrebbe potersi improvvisare chirurgo o architetto: se così fosse possiamo solo immaginare i danni che ne deriverebbero.

Sul liberismo e sulle liberalizzazioni Bersani sembra avere le idee ancor più confuse. Liberalizzare vuol dire sottoporre alle dinamiche di mercato (e quindi della concorrenza) un settore che prima di allora era “protetto” o soggetto a una regolamentazione capace di sottrarlo, del tutto o in parte, a quelle stesse dinamiche. Si parla di liberalizzazione quando si abolisce un monopolio, per esempio. O quando si eliminano le regole che impediscono agli operatori di un certo settore economico di competere tra di loro in maniera autenticamente libera. Questo non vuol dire, forse, affidarsi al mercato e alle sue logiche? Temo, tuttavia, che la confusione di Bersani sia proprio su questo termine: il mercato non è una entità altra rispetto alla “persone comuni”. Il mercato non è che un termine col quale significhiamo tutte le relazioni di scambio e di contrattazione tra quelle stesse persone. In altre parole, il mercato siamo noi.

Quindi la frase di Bersani sulla necessità di difendere i comuni cittadini dalla prepotenza del mercato è un gigantesco nonsenso, tipico di chi ragiona secondo criteri ideologici e senza conoscere il significato delle parole che usa. Si, può succedere che in un mercato si creino posizioni dominanti e che determinate aziende o settori diventino leader, finendo così per dettare un po’ a tutti la linea. Ma ciò avviene secondo un meccanismo spontaneo e sulla base dei meriti e dell’efficienza, vale a dire quando una azienda riesce a essere così competitiva e ad attrarre così tanta domanda da classificarsi come la migliore del suo settore. In un certo senso, mio caro Bersani, il mercato è un meccanismo che da molto più potere ai “piccoli” che non ai “grandi”, nella misura in cui lega la sopravvivenza e la prosperità di questi ultimi alle preferenze e alla fiducia dei primi.

Al contrario, in una economia pianificata o dirigista si creano comunque posizioni dominanti, ma non certo sulla base del lavoro, del merito, dell’efficienza, della capacità di attrarre la domanda o di soddisfarla con prodotti e servizi che conformi alle aspettative e alle preferenze dei consumatori, bensì sulla base di logiche clientelari e favoritismi. Questo si che permette ai “grandi” di sottrarsi alla concorrenza e alla necessità di confrontarsi coi “piccoli”, e quindi di perpetrare impunemente tutti gli abusi che vogliono.

Caro Bersani, che le piaccia o no, non esiste libertà politica o civile senza libertà economica, perché difficilmente si riesce a essere liberi se non si è integralmente padroni dei propri averi o se non viene lasciata a tutti la possibilità di emergere sfruttando le proprie capacità, le proprie qualità e i propri talenti. Se voleva inveire contro il liberismo o contro il “calendismo” ha davvero sbagliato strategia, oltre che parole e ragionamento: il Suo, caro Bersani, ha tutta l’aria di un goffo tentativo di demonizzare un meccanismo – quello di mercato – che ha permesso alle persone comuni di migliorare il loro tenore di vita e di prosperare infinitamente più di quanto non abbiano fatto lo statalismo e il sindacalismo, e una visione – quella liberista – che si è dimostrata molto più funzionale del socialismo da Lei propugnato che, tanto per essere chiari, quando dice “difendiamo il lavoro” il più delle volte intende dire “difendiamo i lavoratori garantiti a discapito di tutti gli altri”.

Aggiornato il 09 novembre 2021 alle ore 10:09