Diritti d'autore e rendite di posizione

Chi ha visto il film About a Boy, o ha letto l'omonimo romanzo dal quale è tratto, non può non ricordare il protagonista interpretato da Hugh Grant, un ricco londinese che vivacchia svogliatamente da anni grazie ai diritti d'autore di un jingle natalizio che aveva scritto il padre molti anni prima. Un esempio emblematico e paradossale di quanto ruota intorno alla discussione sul diritto d'autore che, a fasi alterne, fa registrare rigurgiti rivendicativi, alternativamente da parte dei suoi detrattori o dei suoi difensori. E così nel corso del tempo si sono susseguiti gli spot anti-pirateria.

Anni fa è stata la volta di Giorgio Faletti. Ci si sedeva comodamente sulle poltrone del cinema e si aspettava che partissero i trailer promozionali dei film di prossima uscita. Era un momento importante, in cui gli spettatori trovavano la posizione più comoda per godersi lo spettacolo in santa pace e si sussurravano a vicenda, «ah beh, questo lo andiamo a vedere…eh?». Questo spazio di "riscaldamento" iniziò a venire occupato da qualcosa di diverso. Partiva un filmato angosciante, accompagnato sapientemente da una colonna sonora sincopata e incalzante. Inizialmente poteva sembrare il trailer del prossimo thriller destinato a sbancare il botteghino, ambientato in uno squallido contesto di periferia suburbana.

Dopo qualche secondo si capiva che era in realtà uno spot, una campagna contro la pirateria. «La pirateria è un crimine», recitava lo slogan, e un terrorizzato Faletti sussurrava disperato «Stanne fuori...!» dopo che due cd (sicuramente delle copie pirata) lanciati a tutta velocità gli sfioravano le tempie e si andavano ad infilzare nella parete appena dietro di lui. Forse molti ricorderanno anche un'altra versione dello stesso spot, nel quale Faletti pendeva dal soffitto di una stanza in penombra con un cappio al collo, mentre una fotocopiatrice riproduceva incessantemente copie su copie pirata di pagine di romanzi.

Da allora, la rete si è sbizzarrita nel riproporre parodie dei suddetti spot. Oggi abbiamo una nuova campagna anti-pirateria, e chissà se sarà accolta con minor senso dell'umorismo. Stavolta, infatti, sono i cantanti e musicisti italiani ad essersi uniti in sodalizio artistico per contrastare il fenomeno dilagante. Con un malinconico sottofondo di pianoforte, in ordine di apparizione, Mario Lavezzi, Gino Paoli, Caterina Caselli, Ludovico Einaudi, Enrico Ruggeri, Mauro Pagani, Ron, Franco Battiato e Roberto Vecchioni si alternano e si passano la parola.

Se ne stanno tristemente seduti al buio, emergono dall'ombra e spiegano perché la pirateria digitale rappresenta la iattura più grande che può capitare ad un artista. «La pirateria uccide il mondo della creatività e della fantasia», dicono, omettendo di specificare in che modo esattamente un artista possa improvvisamente diventare meno creativo e lasciando intendere che il sacro fuoco dell'arte ha bisogno di un incentivo monetario per manifestarsi nella sua completezza. Come dire che Mozart non avrebbe mai iniziato a comporre in tenera infanzia se non avesse pensato all'allettante prospettiva dei diritti d'autore che gli avrebbero garantito una serena vecchiaia. 

E ancora: «L'intera industria culturale è destinata all'estinzione se non si fermano i siti pirata», ma dimenticano che si diceva la stessa cosa quando fu introdotto l'uso del computer negli uffici o quando, due secoli fa, fu inventata la Spinning Jenny. Dimenticano che anche i cicli produttivi più consolidati e le grandi stagioni industriali possono avere una fine. Al loro posto non lasciano un vuoto incolmabile ma aprono lo spazio a qualcosa di diverso. Quando smisero di circolare i carri trainati da animali, l'uomo non smise di muoversi ma iniziò a farlo più velocemente e meglio, utilizzando l'automobile.

 «I siti che distribuiscono illegalmente musica, film, ecc. - dicono -raccolgono miliardi attraverso la vendita di spazi pubblicitari. Si arricchiscono». Arricchirsi, questo sì che è un crimine. È la colpa che viene spesso affibbiata a chi ha un'idea. La colpa della quale l'obsoleto industriale Jim Taggart  accusava Hank Rearden, l'instancabile innovatore, in La rivolta di Atlante. La colpa di volersi arricchire, di cercare il profitto, di non essere filantropi benefattori dell'umanità. Peccato però che gli artisti riuniti abbiano dimenticato quando gli acquirenti si erano abituati a comprare per 20-22 euro cd che contenevano una decina di canzoni, tra le quali due erano pezzi buoni gli altri otto da dimenticare.

Quale altra malefatta commettono i pirati della cultura? Gli artisti puntano il dito contro i social network, i motori di ricerca e anche contro il famigerato Megaupload (recentemente chiuso dall'Fbi), che creano disoccupazione e, tema caro ai nostri giorni, «generano evasione fiscale». E quando oggi parli di evasione fiscale c'è tutto un popolo di ligi contribuenti pronto a darti addosso.

Quindi, per riassumere, abbiamo nove artisti per uno spot. Nove grandi artisti, nessuno lo mette in dubbio, ma che insieme fanno una media di 65 anni di età, in un messaggio che, per la natura del suo contenuto, dovrebbe essere indirizzato per lo più a giovani e giovanissimi. Una stana strategia comunicativa, che sembra come suggerire come i più ferocemente attaccati al carrozzone dell'industria dell'intrattenimento e al diritto d'autore nella sua accezione più classica e monopolistica siano proprio gli anziani. I quali tengono a precisare che non sono affatto contro la censura o contro la libertà della rete, ma che, in pratica, questa deve seguire le vecchie regole.

Come e se sia tecnicamente possibile impedire la libera e gratuita circolazione dei prodotti culturali in rete è tutto da vedere. Se un romanzo scritto duecento anni fa può ancora costare 10€ e oltre (provate a comprare un classico della storica Penguin) e se l'album con i successi di David Bowie, uscito già 10 anni fa, su i-Tunes sta a 9,99€, ci si chiede come sia possibile non notare che l'industria dell'intrattenimento non riesce più a stare al passo con i tempi. Così come, spiace dirlo, gli artisti che reclamano quelle che sembrano vere e proprie rendite di posizione.

Dimenticano, o sembrano non voler capire, che a beneficiare della sfacciata sregolatezza della rete sono stati proprio gli artisti, specialmente quelli più giovani che, magari non supportati da una casa discografica, si sono aperti un varco virtuale, hanno ottenuto visibilità e hanno conquistato una loro nicchia di pubblico. Non certo per filantropia, ma per fama. Perché un prodotto artistico oggi non è più qualcosa di elitario. E acquista il suo senso più completo se lo si condivide con un pubblico il più vasto possibile.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:33