Quando la giovinezza è davvero giovane

Roberto Herlitzka è l’anima reincarnata di Pierpaolo Pasolini, nel monologo scritto da Gianni Borgna, per la regia di Antonio Calenda, dal titolo: “Una Giovinezza enormemente giovane”. Lo spettacolo sarà in scena fino al 9 novembre, al Teatro Argentina di Roma. L’ambientazione rimanda a una spiaggia malandata, nella periferia di Ostia, località Idroscalo di Roma. Una rete metallica di protezione fa filtrare luci lontane, osservate con interesse da una zona desolata e degradata, dove una figura inerme, insanguinata, senza una scarpa, giace in un sarcofago di sabbia. Poi, si materializza l’Ombra, quella che è il nostro Doppio trasparente durante la vita, che torna fugacemente, con un permesso poetico straordinario, sul luogo da dove era partita per il suo viaggio senza fine. Ed è Lei a raccontare -con la voce di un antico saggio, priva di odio e di rancore- di una mente, di un’intelligenza dalla quale, in realtà, non si è mai separata, essendone la sua radiazione cosmica eterna. Tra letture di fogli rinvenuti alla rinfusa in contenitori improbabili, o citazioni di memorie e scritti pasoliniani -recitati, a volte, in una lingua dialettale, dolce e sconosciuta-, Herlitzka ripercorre, in senso opposto, la “Linea dell’Universo” della vita terrena di Pasolini.

Ed è un tracciato sghembo, quello proposto da Borgna: ricostruito per interpolazione tra i punti nodali di un’esistenza poetica e letteraria di un pensiero “enormemente giovane”. Quello di colui, che per dono divino e per manipolazione del Destino, vede il mondo da una prospettiva pre-rinascimentale, dove le case, gli alberi, il paesaggio si fanno piccolissimi (appena un accenno, cioè, al contesto urbano, o agricolo pastorale della società civile immanente), mentre i personaggi di primo e secondo piano assumono l’aspetto ciclopico, per raccontare le loro storie di santità, di martirio o di degrado. Ed ecco, come per magia, scorrere su uno schermo gigante tutte le fattezze di una società pre-industriale, in bianco e nero, che fu.

Al suo posto, le conquiste sciatte di un’umanità tesa all’omologazione, prigioniera di paesaggi urbani senza libertà, ordinati secondo uno sterile, insultante e violento tracciato viario reticolare, ad angolo retto. Sui cigli delle loro ferite, i palazzinari romani hanno eretto enormi scatole per animali in gabbia, con una miriade di piccoli fori sulle pareti, per respirare appena, strangolati da strade strette, simili alle viscere di una serpe, sulle quali si allineano le pareti ingorde di cemento, senza spazi per la socialità, al loro interno. Non più il Quarticciolo, con la sua umanità dalle mani callose; le grida e i giochi semplici dei ragazzini (loro, che avevano la “purezza del peccato”); le case a un solo piano, piccole e spoglie, squallide e bruttine, tirate su con le proprie mani, sparse nel terreno come semi privi di linfa, in un’urbanistica della precarietà e dell’improvvisazione, senza regole e programmazione; eppure così stabile nei sentimenti e nei valori.

Prima, dice Pasolini, quando gli Italiani erano ingenui e semplici, esisteva una “Identità”, dove i poveri sapevano fare i poveri e, nondimeno, godersi appieno la vita (magari facendo il bagno e i giochi adolescenziali nelle “marane”, sorta di fossi naturali pieni d’acqua piovana), mentre i ricchi se ne stavano lontani, chiusi nelle loro ville di periferia, o nei lussuosi palazzi del centro storico. Poi, arrivò la crescita economica, con la sua fame di aree urbane, e di arricchimento veloce e spietato, che fece delle zone agricole periferiche romane un ricettacolo di poltiglia intellettuale.

L’urbanizzazione selvaggia diventò il luogo di congiunzione innaturale, come un mastice fallato, di genti italiche meridionali totalmente diverse tra di loro, che avevano abbandonato le proprie terre e tradizioni, alla ricerca di un benessere materiale, in cambio del quale avevano dato via l’incedibile: la propria Dignità! Via la gioventù delle marane. Via quel sottoproletariato urbano, così orgoglioso della propria esistenza modesta. Un mondo intero raso al suolo, per fare spazio a enormi quartieri anonimi, senza socialità, né senso della vita, che non fosse altro che quello dei nuovi, impetuosi consumi. Il Doppio racconta della “novità”, di quei modelli venuti da lontano, trasportati dalla tempesta magnetica, originata da una perversa “Razza Borghese” dell’accumulo illimitato, e dell’omologazione indifferenziata.

Così, la gioventù diventa tutta uguale a se stessa, schiacciata sul modello imposto da una Borghesia mediocre, a-spirituale, che detta a tutti le sue nuove regole comportamentali, in cui è bandita la Cultura, soprattutto quella “popolare”. Ecco, poi, apparire l’Antistato. Bisognava fermare la potenza intellettuale di fuoco del ’68, attraverso un rosario doloroso e sanguinolento di stragi “nere”: Piazza Fontana, Brescia, l’Italicus. Ma, si chiede Pasolini-Herlitzka, quanto c’è di autenticamente fascista in quelle sezioni chirurgiche, lobotomizzanti, servite ad annientare il vento impetuoso della giovinezza, e a racchiudere la politica nella vergine di ferro della difesa, a tutti i costi, delle alleanze internazionali?

Un fine supremo, quest’ultimo, utile a cancellare tutti gli altri: la rivoluzione appena sbocciata; la crescita del pensiero e del consenso progressista, di una sinistra che intendeva andare oltre, per esplorare una sua terza via, rispetto al modello sovietico. Perché i grandi intellettuali dell’epoca, Calvino in particolare, bocciarono e si rifiutarono di dire una sola parola, per incontrare quella gioventù “nera” (che si auto infliggeva il marchio di “fascista”), senza rendersi conto come fosse “esattamente” uguale a.. quell’altra? Se avessimo parlato con loro, dice Pasolini, avremmo, forse, potuto cambiare le sorti dell’Italia, ed evitare una sorta di guerra civile e il nostro declino, per bande armate interposte.

Poi, ci giunge il Pasolini visionario, quasi escatologico: quello che vede le grandi migrazioni, in fuga dalla fame e dal bisogno, di milioni di esseri umani, vestiti di stracci. Uomini “colorati” che con le loro barche malmesse invaderanno, un giorno, le coste del benessere occidentale. Poi, la percezione netta della dittatura dei “poteri forti”, quelli che ruotavano allora sugli immensi interessi del petrolio e del suo sfruttamento. I Cefis, i boiardi di Stato come lui, che si sarebbero impossessati della giugulare economica di un Paese che stava diventando tra i più ricchi d’Europa, per sfruttare al massimo, a vantaggio loro e della politica servente, i fiumi di denaro dell’intervento pubblico, originati dalla nuova manna del miracolo economico italiano e, poi, dal nascente debito sovrano. E, infine, quella “conta” maledetta delle vittime della Banca dell’Agricoltura di Milano; i volti anonimi e le loro biografie scarne, ritratte da istantanee che appaiono sbiadite sullo schermo (fotografie quasi illeggibili, aggredite dall’acido della Storia dell’Italia contemporanea), fa da corona e premessa funebre al delitto Pasolini, raccontato dal suo Doppio immateriale, con agghiacciante lucidità, in tutte le sue fasi assassine.

Certo, uno spettacolo avvincente; dove le pause sono bandite; utilissimo per chi non vuole dimenticare, e per tutte le generazioni più giovani che nulla ne sanno.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:31