“Civil War”: ritorno al 1865

Alla ricerca del Lincoln perduto. Così si potrebbe, in sintesi, etichettare il film di fantapolitica, Civil War (da domani nelle sale italiane), scritto e diretto da Alex Garland. Per quanto riguarda gli attori, Kirsten Dunst è Lee, una famosa reporter di guerra, mentre Wagner Moura è Joel, giornalista e collega di Lee. Cailee Spaeny, interpreta Jessie, aspirante fotografa di guerra che accompagna i due più famosi colleghi nel viaggio di documentazione della guerra civile in atto. Infine, Stephen McKinley Henderson, nel ruolo di Sammy, rappresenta il mentore e maestro di giornalismo sul campo di Lee e Joel. Nessuno sa perché, ma i cronisti di guerra si trovano a documentare la tragedia e gli scontri tra truppe di terra e irregolari per rovesciare il presidente in carica. In particolare, nella storia non sono mai rivelate le ragioni politiche per cui due Stati secessionisti, armati di tutto punto, hanno deciso di rovesciare con la forza il Governo americano in carica.

Lo fanno e basta. Provocando un clima di assedio e devastazione in tutto il territorio degli Stati Uniti, nei cieli e in terra. Ciò che conta nel film, infatti, è l’audacia incomprensibile di donne e uomini di porre l’obiettivo e gli scatti costantemente dietro e di fronte (in quest’ultimo caso, riparati da colonne di cemento armato o da spessi muri) la linea di tiro. Si avanza scattando insieme a combattenti in divisa o in abiti civili, in cui l’urto e il suono dei colpi dei fucili automatici, il sangue che esce copioso dalle ferite, le grida dei comandanti dei plotoni e dei loro soldati, rappresentano in tutto il film la colonna sonora permanente, debordante, assordante e adrenalinica. Ciò che va asetticamente documentato, infatti, è il coraggio e l’incoscienza degli uni, gli uomini armati di fucile, e degli altri, i reporter disarmati, la cui unica protezione è un giubbotto antiproiettile, con la sovrascritta a grandi caratteri “Press”.

Ma, quella dicitura, solo talvolta è un toccasana, un lasciapassare dello sguardo, quando non si ha il tempo materiale di verificare i documenti di viaggio e autorizzazione al transito. E, a ogni avamposto, comando provvisorio, e quanto altro, occorre provvedere al loro rinnovo, in funzione di chi controlla la zona da coprire con le cronache fotografiche e documentali, nelle diverse aree in cui si svolgono i combattimenti. E non è detto che sia così semplice fare rifornimento di carburante, perché in una guerra civile non sai mai chi ha, in quel momento preciso, il controllo della situazione. Soprattutto, le cose si fanno molto complicate nel caso degli irregolari, perché non soggetti ad alcuna disciplina o codice militare e, quindi, imprevedibili nei loro comportamenti, per chiaro abuso di alcool e di sostanze psicotropiche, necessarie per affrontare la morte sotto il fuoco nemico. In ogni angolo di strada, da una casa isolata, può spuntare un cecchino che tira su tutto ciò che gli capita a tiro, e allora davvero sono dolori. Così, il cronista si assoggetta a osservare il tutto con sguardo apparentemente distaccato, dissimulando ogni possibile emozione, esecrazione o disprezzo per quanto sta avvenendo, semplicemente lasciando ogni giudizio al suo obiettivo e al cuore che batte violento dietro ogni scatto rubato alla morte. E, per non farsi mancare niente, strada (deserta e periferica) facendo, si può ben incontrare un pazzo sottoufficiale psicopatico, che tira anche all’aria che si muove, al quale non interessano né il grido stampato di “Press”, né i documenti di viaggio, ma esclusivamente “da dove vieni”, perché solo la provenienza denota l’americano “giusto”, quello cioè da risparmiare. Già: ma quale?

Così, in questa lunga cavalcata verso la Capitale assediata, per rubare l’ultima intervista e documentare la fine del presidente legittimo, si svolge l’intera rappresentazione del film. Al centro, la figura di due donne: l’anziana, Lee, costretta a prendere a bordo del Suv dell’agenzia di stampa la più giovane, Jessie, scriteriata, apprendista stregone di un mestiere che la divora, disposta a tutto pur di “arrivare”, di raggiungere le vette eccelse dell’arte difficile del reporter, di cui Lee è una delle massime, venerate espressioni mondiali. E allora, poco importa se la sua incoscienza mette più volte a rischio l’incolumità di gruppo. Perché l’adrenalina di chi segue l’azione dei più adrenalinici dei combattenti e soldati di prima linea, è una droga impagabile, il gusto della morte servito su di una immensa tavolozza. L’ubriacatura visiva e in diretta delle scene dove sfilano blindati che saltano, edifici che bruciano, strade divelte, e uccisioni che si susseguono come nei videogiochi, con i birilli viventi che cadono l’uno dopo l’altro, uccisi da tiratori scelti che militano sui due fronti. Senza mai un attimo di pausa e di respiro. Perché, poi, di reportage si può anche morire, come accade ai due cronisti super esperti, nel tentativo, guarda caso, di proteggere le vite degli altri colleghi, loro figli d’arte, perché le cronache di guerra continuino a ogni costo.

Aggiornato il 17 aprile 2024 alle ore 16:40