La Carmen di Martone

Una Carmen per... taglie forti quella che Martone mette in scena al Teatro Argentina di Roma (fino al 19 aprile). Come le misure popolari, insomma, delle matrone napoletane, alle quali fanno da contrasto figure maschili, irsute di sacro (le divise militari) e di profano, come il corredo del Toreador urbano e le tenute casual dei guitti della Malanapoli di sempre. E sì, perché nella rivisitazione (audace, s'intende!) di Enzo Moscato, Carmen è il frutto zingaresco di una Napoli Ottocentesca, assai poco unitaria, e tanto anarcoide, in cui lecito e illecito sono i figli illegittimi l'uno dell'altro. E, quindi, come Napoli, Carmen non muore. No che non può morire. Allora Carmen diventa solo cieca, come la Follia amorosa, che la evira dello sguardo. Perché il Vesuvio è fumo e lapilli. Brontola, ma non trascende. Lascia che lo facciano tanti suoi figli sciagurati, lì a valle, giù dalle pendici della sua incontaminata montagna (l'unica a essere rispettata, da quelle parti!). Così, nel termitaio dei bassi, dove pullula una fauna indistinta di osti, signori, lazzaroni, ragazze da bere, e mestieranti di ogni genere e risma, là ribolle un catino di passioni, che arroventano, nella stessa fucina, lignaggi, ceti e classi, separati dalla costumanza, ma non... dall'usanza! Perché il carattere tragico e godereccio della Città del Golfo, ammaliante e assassina, va goduto sino in fondo, come un calice dolceamaro. E no che un amore stupido, non ha regno o ospitalità, da quelle parti.

E quello di Josè, per la bella zingara protagonista, è così... stupido! La storia è semplice, dura e pura: un caporale della gendarmeria che mette le mani sulla sigaraia Carmen, rea di aver sfregiato una rivale; ma che, poi, la lascia fuggire, subendo l'onta della prigione e della retrocessione di grado. Supplizio, quest'ultimo, che gli varrà la riconoscenza (confusa con l'amore che non calza) di Carmen, innamorata soprattutto della vita (la sua!), e che sfarfalla la sua bellezza sensuale, come polvere magica, sulle passioni di molti uomini, certo troppi, per il povero Josè, sedotto, poi abbandonato e rifiutato. Un rivale lo accoltella a una gamba, recidendone il tendine, e costringendolo così a trascinare la gamba sinistra per il resto della vita, come un relitto senza più il timone dell'amata. Lui, Josè, che ha perfino ucciso per stare accanto alla sua Carmen, nel covo dei malnati. Lui, che parla un'altra lingua e, a quanto pare, sapeva solo amare a modo suo: con la minaccia e la lusinga. Senza fascino: nulla, al di fuori della sua rugosa disperazione. E lo scenario è un'onda, sonora, visiva, verticale, sempre coloratissima, con un gioco di luci e di macchine di scena davvero impressionante. Pannelli che, come giganteschi libri di una teca immaginaria, si squadernano, per mostrare i presepi viventi nelle loro cavità, appena accennate, come un bassorilievo a grana grossa.

Luogo centrale, baricentrico e pulsante dell'intera rappresentazione è la bettola, animata da un oste in re minore, alto qualche pollice, ma dal fiuto e dal cervello fino, che vede anche quando non sente, e che ascolta anche quando non vede. Fiuta, semplicemente: il buon cliente; la minaccia; i guai; la poca gioia che regala la vita grama dei bassi napoletani. E la canzone partenopea s’alza e sovrasta la scena, come l’onda e la sua spuma, quella che, per un attimo, merletta la superficie ostica degli scogli, regalandole per qualche istante un velo bianco, steso su di un’anima nera, quella della malapianta, che filtra i nutrienti da un terreno arido e sassoso, facendo sbocciare fiori del male che cercano, disperatamente il bene. Perché la Carmen accecata è filosofa e poetessa; maîtresse di bordello e lucida tessitrice dei destini dei suoi amanti. Donna perduta e angelo in pectore. Lei, orba ma padrona del suo destino; e Lui, José, invalido prigioniero, sono le altre due voci narranti di se stesse, che appaiono come altrettanti fantasmi, per raccontare una storia, forse, come tante, in cui la vitalità è inevitabilmente femmina.

Insomma, per chi non ha pruderie dell'ultra-ortodossia, spettacolo consigliato, per una felice contaminazione di idee, movimento, fantasia e musica un po' stordenti, invero, e tanto, ma tanto dissacranti.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:11