21 aprile: ricordiamo la nascita di Roma

È l'alba. Romolo sul Palatino e Remo sull’Aventino, fra le due loro rispettive schiere, dei Quintili e dei Fabi, scrutano ansiosi il cielo. Avendo deciso di costruire una città, per porre termine alla loro vita errabonda di pastori e di predoni, non sono riusciti ad accordarsi su chi dei due debba esserne il fondatore e il re. Allora Romolo dice al fratello: “Nil opus est certamine ullo” (Non c’è bisogno che litighiamo), e lo convince a rimettersi al volo degli uccelli, attraverso cui parlano gli dèi. Ma il divino linguaggio è sibillino. Remo infatti per primo vede fendere il cielo da un cupo azzurro stormo di sei sacri avvoltoi, e già di bocca in bocca corre l’auspicio, quando Romolo ne vede dodici sul Palatino.

Un grande grido di esultanza si leva, uguale, dalle due schiere, utrumque regem sua multitudo consalutat: i seguaci di Remo per la priorità nel tempo, quelli di Romolo per la priorità nel numero. Prevale, fra i due, l’auspicio di Romolo, al quale spetta perciò il diritto di tracciare il solco entro cui dovrà sorgere la città. Ma Remo non accetta quella interpretazione. Minaccioso, torvo (come sarà la carducciana Roma nascente dell’Annuale), guarda il fratello, e già cova nel cuore la vendetta. Né valgono a calmarlo i dolci affetti di una vita passata insieme, il ricordo della madre comune, né del padre divino. Rivive la sua storia nel racconto che gliene hanno fatto i genitori adottivi, Faustolo e Acca Larenzia: come la madre, Rea Silvia - costretta dallo zio Amulio, che aveva spodestato il padre Numitore, a farsi vestale (affinché da lei non sorgesse un vendicatore) - mentre dormiva in un bosco sacro a Marte, dove s’era recata ad attingere acqua, fosse stata abitata dal dio e dopo il parto gettata nel Tevere, insieme ai due gemelli messi dentro una cesta, ed annegata (altri invece dicevano che salvata dal dio Tiberino era stata da lui sposata e resa immortale).

E come infine la cesta, rimasta in secco presso un albero di fico, fosse stata scoperta da una lupa, che aveva allattato i due piccoli, mentre un picchio e una gazza li rivestivano con le loro ali. Così Faustolo, il padre adottivo, li aveva trovati e portati alla moglie Acca Larenzia perché li allevasse. E così rivive ancora il famoso incidente, motivo occasionale di quel sorprendente racconto, quando un giorno, in seguito ad un’ennesima scorribanda effettuata col fratello contro alcuni pastori, mentre tornava dalla festa dei Lupercali, fu catturato da loro e condotto prima al cospetto del prozio Amulio e poi del nonno Numitore, per essere punito. Ma l’avo, insospettito dal suo nobile aspetto, lo riconobbe, alla fine, mentre Faustolo, intanto, metu subactus (ne Numitor ignarus nepotem suum interficeret) rivelava al fratello la loro origine. Il seguito, come, accordatisi tutti, avessero fatto fuori l’usurpatore e rimesso l’avo sul trono, era cosa recente.

Mentre Remo va agitando questi pensieri nella mente e opposti sentimenti gli sconvolgono l'animo, viene infine il momento fatale. È il giorno delle Palilia, antica festa in onore di Pale, dèa dei pastori. Questi, dopo aver dato fuoco a mucchi di paglia, saltano tra le fiamme per tre volte insieme col bestiame, per purificarsi, invocando la dea: “Alma Pales, sii a noi favorevole! Se mai offesa abbiamo recato ai boschi e alle fonti, perdonaci!”. Così dicendo offrono alla dèa sacrifici incruenti di candido latte e di focacce. Romolo, intanto, fissato un vomere all’aratro e aggiogativi un bue e una giovenca bianchi come la neve, lento e solenne come un sacerdote e col volto ispirato, traccia il fatidico solco, delimitando il pomerio, che costituisce la zona sacra e inviolabile e a cui perciò viene attribuito un significato magico, religioso e militare. In una pausa, volto lo sguardo al cielo, innalza una preghiera: “Divom empa cante, Divom Deo supplicate!” (celebrate il padre Giove, supplicate il dio degli dèi!). Ed ecco subito tuoni e lampi nel cielo sereno, ad indicare il consenso e il favore divino.

Ma un luttuoso incidente viene a turbare la gioia della comunità. Remo, deluso per non essere stato il prescelto, comincia a insultare le mura deridendole: “His populus tutus erit?” (E con queste il popolo dovrebbe stare al sicuro?). Dopodiché, ignorando forse l’ordine dato da Romolo a Celere, il capo delle guardie, con un agevole balzo le scavalca, offendendo così non solo il fratello ma gli dèi stessi, protettori di quel sacro confine. Allora Romolo, indignato, rinnovando il gesto del primo fratricida (invidioso del fratello perché prediletto da Dio), si scaglia contro Remo e lo uccide, esclamando: “Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea!” (Così muoia chiunque altro oserà scavalcare le mie mura). Grande, inconsolabile, è però il dolore di Romolo per quel crimine (che alcuni vorranno avvenuto prima dello scavalcamento del muro e per mezzo di altri: Livio, non mostrando di credere, per carità di patria, alla vulgatior fama, dirà semplicemente “in turba”). Scoppiato in lacrime, Romolo abbraccia e bacia il corpo del fratello e lo unge egli stesso, e quando il rogo viene acceso minaccia addirittura di suicidarsi.

Ma poi, sfogato il dolore e sepolto il cadavere di Remo sull’Aventino (in un luogo che dal suo nome sarà chiamato Remuria), pensa subito al da farsi, poiché molti sono gli impegni che lo attendono. Per prima cosa bisogna dare un assetto organizzativo alla città, imponendo il freno delle leggi a quella selvaggia e disordinata comunità di predoni. Così Romolo (il cui regno si estenderà dal 753 al 717 a.C.) istituisce un corpo di cento senatori, i Patres (i cui discendenti si chiameranno patricii), nonché un corpo di dodici littori che dovranno sempre precederlo. Apre poi un asilo fra le due vette del Campidoglio (in cui affluiranno ladri, schiavi fuggitivi e fuorilegge di ogni genere), ma soprattutto organizza il ratto delle Sabine, dal quale in fondo si può dire che abbia inizio la cittadinanza di Roma. Nota è la storia. Col pretesto di una festa in onore di Conso, antico dio della terra, invita tutte le genti delle contrade vicine, fra cui, più numerosi, i Sabini, e nel corso dei festeggiamenti, mentre si svolgono banchetti, giochi e corse di cavalli, “ex composito orta vis signoque dato” (come dirà Livio), “iuventus Romana ad rapiendas virgines discurrit”. È la guerra, la prima guerra di Roma.

Guidati dal proprio re, Tito Tazio, i Sabini muovono all’assalto della città e vi penetrano grazie al tradimento di Tarpea, figlia di Spurio Tarpeo, custode della rocca, che i nemici stessi (altri vogliono che sia stato Romolo a farla gettare, insieme col padre) precipiteranno dalla rupe, dopo averla schiacciata sotto gli scudi che portavano al braccio sinistro (come quei braccialetti d’oro di cui il re, ingannandola, le aveva fatto credere che si trattasse). Grande è la strage. Finché le Sabine rapite, gettatesi in mezzo alla mischia, supplicando da una parte i propri padri e dall’altra i mariti, convincono i due eserciti alla pace. E così i Romani ebbero i loro figli e Roma la sua cittadinanza.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28