“Deposito bagagli”: il libro-diario di Fenizi

Un libro denso di spunti di riflessione, questo “Deposito bagagli” di Luigi Fenizi (Scienze e Lettere, 2016). Che spinge ad interrogarsi sia sui grandi temi della vita, sia sulle possibili scelte di un’umanità orfana delle ideologie otto-novecentesche.

Sì, perché quest’autobiografia di Fenizi (funzionario del Senato in pensione, collaboratore di varie testate di area riformista, autore di vari saggi su grandi figure del Novecento, da Albert Camus a Varlam Šalamov), è un’autobiografia dal duplice taglio. Da un lato è una cavalcata nella storia d’Italia del dopoguerra, vista appunto con gli occhi di un funzionario del Senato (belle le pagine che l’autore dedica ai suoi incontri con Ferruccio Parri, conosciuto nei suoi ultimi anni, Pietro Nenni, Aldo Moro, di cui Fenizi fu studente alla Facoltà di Scienze politiche all’Università “La Sapienza”). Dall’altro è la storia della lunga lotta condotta contro un male fortemente invalidante: improvvisamente apparso nella vita dell’autore, dividendola irrimediabilmente in un “prima” e in un “dopo”, agli inizi degli anni Novanta.

“Una battaglia - ha raccontato Fenizi - combattuta, e in parte vinta, grazie all’amorevole e costante aiuto della mia famiglia e degli amici più cari; mentre molto mi ha aiutato il rapporto col trascendente, del quale, pur non essendo credente, ho sempre avuto il senso”.

A proposito di ideologie, però, la storia degli ultimi trent’anni, specie dall’epocale 1989, mostra che quelle pienamente crollate sono le ideologie classiche, di stampo ottocentesco (vedi anzitutto il marxismo-leninismo), che pretendevano di spiegare e inquadrare con ottica totalizzante (e totalitaria) ogni aspetto della vita umana. Ma oggi, in una situazione mondiale sempre più caratterizzata da gravi disuguaglianze (vedi anzitutto il Terzo Mondo), si sente più di prima il bisogno di un pensiero “forte”, non ideologico, ma capace di affrontare concretamente problemi diversi ma non meno gravi di quelli del passato. Nel suo libro, Fenizi (nato nel 1944) mostra infine la sua vicinanza alla generazione immediatamente precedente alla sua. Quella maturata tra la Resistenza e l’“indimenticabile 1956”, fatta, in buona misura, di ex dirigenti comunisti - come Giuseppe Averardi, Eugenio Reale, Michele Pellicani (padre di Luciano, politologo e poi direttore emerito di “Mondoperaio”) - che esattamente sessant’anni fa, di fronte al dramma dell’Ungheria (autunno 1956), avvertirono di aver professato per anni un’ideologia sanguinaria e fallimentare e cercarono, angosciosamente, una siloniana “Uscita di sicurezza” nelle file socialdemocratiche e socialiste.

Aggiornato il 12 luglio 2017 alle ore 19:41