Clementi va a nozze   al Teatro “La Cometa”

Certo, “W gli sposi!”. Sì, ma quali? Stavolta Gianni Clementi (eclettico e geniale autore teatrale) si diverte a metterci dentro il paradosso, invitandoci dapprima a una lettura dissacrante del rito scontato suocera contro suocera, della famiglia cafona (di lei) contro quella piccolo borghese di lui. Lo spettacolo “Finché vita non ci separi - Ovvero: W gli sposi”, va in scena al Teatro “La Cometa” di Roma fino al 20 novembre, per la regia di Vanessa Gasbarri.

L’inizio è esilarante: Alba (interpretata da Giorgia Trasselli, perfetta nella sua parte di finta moglie virago), la madre dello sposo, il capitano Giuseppe, è già sveglia alle quattro e mezza del mattino per gli ultimi preparativi prima della cerimonia matrimoniale, che si svolgerà in chiesa di lì a poche ore, trascinando con sé nella levataccia il futuro sposo e suo marito. Donna forte ed energica, Alba sta finendo di confezionare le ultime bomboniere, seduta in vestaglia accanto a un piccolo tavolino letteralmente assediato in basso dai regali di nozze, tutti scartati e rigorosamente in disordine. Accanto al tavolo, sulla sinistra, occupa il primo piano un delizioso divanetto a più sedute, sul quale giacerà sconsolato e in pigiama suo marito, il maresciallo Cosimo Mezzanotte (Enzo Casertano, fulminante nelle sue rapide battute e nei gesti essenziali e misurati).

La trama del racconto è deliziosa e, quindi, la lasciamo alla scoperta didascalica e mai scontata dello spettatore. Qui vale la pena di analizzare da un altro punto di vista l’arte di Clementi (che, comunque, sa sempre scegliere con metodo infallibile le compagnie dei suoi attori), osservandola sotto il profilo etico e drammaturgico, dove il simbolico (come l’albero di noci) appare solo dopo un rilevante sforzo di risoluzione, da parte di chi osserva senza disattivare il “terzo occhio”, costantemente deviato dal sorriso e dalla carnalità piena dei personaggi. Alba è orchessa del buon senso di suo marito, aggredito e stracciato dai suoi umori di donna senza più desideri, al di fuori di una rivalsa sociale che non trova freni o remore nei pur delicati aculei che Cosimo puntualmente spedisce nella sua direzione, come fanno certi animali marini esotici, diluendoli con manifestazioni adolescenziali, chiaramente fuori luogo ma che dicono tutto sulla sua ancillarità mascolina. Perché, poi, in conclusione, Alba e Cosimo sono l’uno l’alter ego dell’altro, compendiandosi e compenetrandosi: il primo esegue gli ordini fedelissimo e devoto, mentre l’altra manipola, scava trincee e semina trappole, nelle quali finiscono per cadere i suoi due maschi.

Alba è di gomma, ma solo nel rivestimento esterno: vuole a ogni costo che il figlio sposi la sua fidanzata, con la quale ha combinato un “guaio”, prima che l’evidenza della gravidanza sia visibile a tutti. Vorrebbe conquistare un po’ di vernice snob, come un ristorante di moda dal titolo evocativo di “Petit déjeuner” da nouvelle cuisine, dove secondo Cosimo servono pietanze per astronauti, talmente sono scarse le porzioni, ma ha abbastanza buon senso per arrendersi all’ineluttabile. Ovvero: il rinfresco si farà al ristorante “La Scamorza” di cui i futuri suoceri sono i proprietari, e che soddisfa l’appetito pantagruelico della famiglia napoletanissima di Cosimo, avvezza a pasti abbondanti e “ruspanti”. Per un bacio del figlio, bello, aitante e solare, militare di prima linea in Afghanistan, e l’unico in grado di conquistarla davvero, arriva perfino a soprassedere al diktat imposto al povero Cosimo di indossare la divisa di gala, che avrebbe fatto tanto “sfilata”, assieme a quella del figlio e della banda militare, che Cosimo con la sua insistenza incrollabile di pensionato per sempre fedele è riuscito, dopo mille insistenze, a portare sul sagrato della chiesa, a fine cerimonia. Come ha fatto con il suo comandante, il “colonnello”, praticamente costretto a promettergli la promozione per Giuseppe a ufficiale superiore.

Fin qui tutto scorre come la corrente di un ruscello con qualche sasso di varia grandezza sistemato nel letto di ghiaia, utile cammino sospeso sull’acqua per chi volesse guadare. Ma poi irrompe qualcosa di completamente “diverso”, talmente inatteso da folgorare i tre presenti sulla scena: i due genitori e una strepitosa parrucchiera, Miriam (interpretata da un’esuberante e divertentissima Federica Quaglieri), ruspante quanto basta, con un trucco così peripatetico da sfiorare la maschera del clown, ma con un corredo di intelligenza popolare, sensibilità e dolcezza che traccia un ponte affettivo per salvare i vari protagonisti dal campo minato in cui stanno muovendo ormai i loro passi incerti e affannati. E qui emerge tutta la forza narrativa di Clementi: due figure di donne a confronto. L’una giovane, l’altra anziana. La seconda pronta a tutto, come una tigre che difende i suoi cuccioli, affinché l’imprevisto sia ben pagato ed espulso lontano, fuori dalla portata di sguardi indiscreti. L’altra, invece, utilizza bene la sua gioventù per capire la novità vera dei rapporti affettivi moderni, censurando i comportamenti devianti (il doppiopesismo, la mancanza di coraggio, l’ipocrisia sociale) e offrendo la sua visione semplice e mai prevenuta delle cose della vita. Complimenti a tutti: bravissimi!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:25