“L’isola degli schiavi”,   l’abito fa il padrone

Una mescolanza di Illuminismo e Commedia dell’Arte: è in scena a Roma, al Piccolo Eliseo (fino al 9 aprile) lo spettacolo “L’isola degli schiavi”. Rivolgiamo alcune domande a Ferdinando Ceriani, che per la messinscena del testo di Pierre de Marivaux ha curato traduzione, adattamento (insieme a Tommaso Mattei) e regìa.

Qual è la storia?

Marivaux, un po’ il Carlo Goldoni di Francia, racconta di due naufraghi padroni, con i loro rispettivi servi, che finiscono in un’isola in cui c’è una legge per cui gli uni sono costretti a vestire i panni e fare la vita degli altri, i quali, a loro volta, si ritrovano nel ruolo invertito. Tutto è orchestrato dal governatore Trivellino, e ha una finalità: quella di capire l’altro, perché, comprendendo le sofferenze di chi ci sta vicino, impariamo ad amarlo. Si parla di una lezione di umanità, è un bellissimo messaggio utopico, agito in un contesto che richiama la Commedia dell’Arte: molto giocoso, buffonesco, divertente, però con un profondo insegnamento di solidarietà che viene fuori.

In che rapporto era l’opera di Marivaux con la Commedia dell’Arte?

Il testo è stato scritto nel 1725 per i Comici italiani di Parigi, chiamati a interpretarlo in francese: nel Paese erano ormai in pianta stabile da più di cento anni, per mettere in scena commedie avevano uno dei tre teatri cittadini importanti. C’è un’azione fondamentale che avviene in scena, e anche questo è molto interessante: per cominciare la loro trasformazione, Trivellino obbliga i protagonisti a cambiare costume. Se ci pensiamo è - in embrione - la grande riforma goldoniana della fine della Commedia dell’Arte, la perdita della maschera, dei lazzi e dei codici che un pochino imprigionavano e limitavano gli attori: uno dei servi si chiama Arlecchino, che deve vestire un abito che non è il suo. Io non ho recuperato questa versione, ma comunque lo schiavo che diventa padrone è un salto nel vuoto anche per l’attore, che entra in scena in un modo - e sappiamo quanto il costume influisca su di lui - ma poi è costretto a spogliarsi e a indossare i panni di un altro personaggio, e quindi deve saper rendere questo cambio/disorientamento - e anche eccitazione - del ritrovarsi in vesti altrui.

Quali elementi della scrittura l’hanno convinta a portarla in scena?

Se guardiamo alla storia dei suoi allestimenti italiani, vediamo che è abbastanza povera. Sicuramente si ricorda quello del 1994/95 di Giorgio Strehler, ma è un testo poco rappresentato perché - guarda caso - non ne esiste una traduzione, in libreria non si trova, e questo ha sicuramente influito molto sulla scarsità delle messinscene. Ha un tema estremamente attuale, pensiamo a dei governanti in questa situazione, costretti a vivere come le persone che loro fanno soffrire: sarebbe fantastico, imparerebbero tanto, e forse si comporterebbero meglio. Attraverso la leggerezza, il sorriso, la comicità di personaggi e situazioni, passa il concetto che l’essere umano, se vince i pregiudizi, le limitazioni del proprio ceto sociale, può trovare un modo di vivere solidale con gli altri. È un po’ quello che raccontavano gli illuministi, cioè il mondo perfetto, le tante isole dell’utopia che hanno arricchito la letteratura mondiale. Il messaggio è positivo e di speranza, in questo momento c’è n’è un gran bisogno: nel Mediterraneo stiamo vivendo un continuo sbarco su isole più o meno degli schiavi, tutti i migranti che arrivano sulle coste di Lampedusa o di altre terre sono persone in cerca di benessere. Oggi il contrasto potrebbe essere quello tra caporale e bracciante, industriale e operaio, il manager che ha delle buonuscite milionarie quando lascia il lavoro e il povero impiegato che si spacca la schiena per raccogliere quello che gli serve per vivere durante il mese; questa disparità - che si sta allargando sempre di più - la ritroviamo in forma metaforica nel testo, che tra l’altro è compatto, molto denso di significati ma scorre anche velocemente, quindi con dei tempi teatrali estremamente fruibili.

Rispetto al testo e alle altre rappresentazioni passate, lei su cosa ha puntato?

Mi sono divertito a dargli un contorno favolistico; si tratta di un’isola particolare che produce suoni, addirittura si muove su se stessa, e dunque crea un ambiente straniante per i quattro naufraghi, persi in questo strano mondo. È una fiaba con la morale dell’importanza della riscoperta del sentimento, della generosità, dell’onestà, del perdono tra esseri umani, che poi li rende pensanti e civili. In tal modo intendevo anche accentuarne la leggerezza, non ho voluto seguire il filone della Commedia dell’Arte, perché - come dicevo - un servo si chiama Arlecchino, e io l’ho liberato della maschera per farne uno schiavo di tutte le epoche: della gleba, russo dell’Ottocento o appunto un odierno povero bracciante delle campagne pugliesi. La Commedia dell’Arte, che con la musica era parte integrante delle messinscene del Settecento di Marivaux, l’ho comunque recuperata sottolineando la comicità dei personaggi, però con un contenuto forte, bello, letterario, classico.

(*) Per info e biglietti: Teatro Eliseo

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:31