Dalla Croazia arriva un bel libro-documento della scrittrice Tatjana Gromača, una storia particolare-universale perché attraverso un punto di vista individuale amplia il cerchio della narrazione fino a raccontare la sofferenza di un popolo intero, con una inquietante affinità tra la triste condizione della protagonista e l’instabilità politica dei Balcani negli anni Novanta.

L’approccio stilistico di “Creature di dio” (Oltre edizioni, 2016) è poetico e originale; il narrare è trattato quasi con la freddezza dell’entomologo, con un ritrarsi del linguaggio che si avvicina alla reticenza e al silenzio. Si racconta di una donna malata, e di rimando del marito che potremmo definire un’anima buona in mezzo a un mondo di lupi, due anime vaste come la steppa russa ma ristrette dalla paura e dalle regole del loro ambiente.

La vita della donna, che è stata costretta a dieci anni in ospedale per via della sua fragilità mentale, peggiora con lo scoppio della guerra quando per le sue “origini orientali” viene additata come diversa; ne consegue un disagio per l’emarginazione, che cerca di esorcizzare con un eccesso di allegria, tolta la quale resta l’incapacità di vivere. Con la sua borsa della spesa piena di verdure, arma pacifica verso l’odio del prossimo, e il suo “buongiorno” offerto a tutti, si scontra con un muro di diffidenza e ostilità, benché fino ad allora fosse stata popolare tra il vicinato in virtù della sua bravura nel canto e nel ballo.

Ecco che dove c’era convivenza pacifica subentra il conflitto e l’odio tra gruppi diretto da un fanatico anelito alla purezza. Sembra il farsi e il disfarsi della storia, e con essa anche della geografia, con i confini dell’esistenza che franano sotto i piedi per risorgere instabili in altri luoghi, confondendo le menti e generando conflitti.

Sotto le pressioni di ideologie avvelenatrici e di falsi miti, la donna si rifugia in un sudario di sonni prolungati, di lunghi periodi passati a letto a dormire, alternati a ricoveri in ospedali, che diventa quasi un rifugio edenico, una sorta di montagna incantata dove trovare un nuovo equilibrio.

La sua è una malattia quasi mistica, in una vita polverosa e sgualcita, uno spaesamento dell’anima per la perdita di ogni centro stabile precedente. Ed è anche una smemoratezza, un non voler ricordare che quella guerra, quelli assassini, quelle violenze, stupri, stragi sono la conseguenza di ciò che arriva da lontano, dal dopoguerra, quando il vaso di Pandora delle divisioni etniche fu solo parzialmente e precariamente chiuso, ma che adesso tracima nuovamente a portare distruzione.

Paradossalmente, nel romanzo non si da credito a chi dice che si sta ripetendo l’orrore della guerra mondiale, con le stesse purghe e delitti, nessuno ne vuole sapere - neanche questa volta ci sarà insegnamento o saggezza. Sembra una coazione a ripetere gli stessi errori, a far sì che si ricada nei baratri della storia, come sonnambuli con la mente accecata, come un “Minotauro” cattivo e selvatico che con la sua irrazionalità vuole distruggere ogni progetto ragionevole di pace.

Finita la guerra, si racconta di un intero Paese inondato da psicofarmaci, necessari per placare le nuove ansie dovute al ricordo del sangue e alla drammatica, ineluttabile discesa nel “moderno”, con le sue contraddizioni e le sue accelerazioni viste come valore. Nascono nuovi miti, come la visita al supermercato, una piccola epopea, quasi un rito religioso, punta di diamante del “nuovo” a cui tutti si accordano.

E allora cosa ci testimonia il commovente romanzo di Gromaca? Può esserci una medicina per il male della storia? Forse è nella comunicazione. Bisogna parlare, fare i conti con quello che è stato, far emergere ciò che è sommerso, perché, come diceva Primo Levi, se il male “è successo una volta può risuccede”. Ci vogliono autocoscienza e sapersi calare nei fatti con rispetto e senso critico, bisogna essere non sedicenti uomini, ma “uomini sul serio” - come diceva lo storico croato del Rinascimento Marino Darsa. E allora una volta che si avrà la capacità di vivere la propria identità, in una società in cui i vari attori riconoscano equi termini di cooperazione ragionevole, si potrà tornare a una normalità che può essere estesa a ogni aspetto della società.

Aggiornato il 07 dicembre 2018 alle ore 15:33