“Chi di noi non è stato abbagliato da una qualche sciocchezza durante la sua vita? Basta ammetterlo e farci i conti, in tutta lealtà verso quello che eri e verso quello che sei diventato”.

Così recita la quarta di copertina dell’ultimo libro di Giampiero Mughini, “Memorie di un rinnegato” (Bompiani). E Mughini i conti li fa davvero, impietoso con se stesso, come ad esempio nelle pagine in cui racconta le “atrocità intellettuali” e le “abissali idiozie” che declamò nei primi anni Sessanta alla Casa dello studente di Catania, sua città natale, in occasione delle celebrazioni del 25 aprile 1945, quando tra “gli applausi scroscianti” si era rammaricato di una epurazione che, troppo timida, non aveva fatto fuori tutti i fascisti.

Ma anche dopo aver raschiato via la “muffa gauchiste”, Mughini sarebbe stato protagonista di altri episodi per i quali recita un sincero e doloroso mea culpa, come quando duellò pubblicamente con il critico musicale Paolo Isotta, reo di essere diffidente nei confronti delle magnifiche sorti e progressive. “Avevi mille volte ragione tu”, ammette sconsolato l’autore. O quando, caso assai più grave, Mughini volle negare il saluto al padre, stimato economista, del terrorista Alvaro Lojacono. La famiglia ne favoriva evidentemente la latitanza e Mughini allora tirò diritto quella volta in cui incrociò Lojacono padre per strada: “sono stato un imbecille, il mio è stato un gesto idiota verso un padre che stava vivendo una tragedia inimmaginabile. Me ne vergogno come se fosse accaduto ieri e non quarant’anni fa”.

Però c’è anche parecchio da salvare nella propria traiettoria culturale. Mughini lo sa e lo scrive, peraltro senza baldanza alcuna, se non altro per tributare omaggi e gratitudine a parecchi compagni di viaggio e ventura. E allora bisognerà pur dire che nelle “sue splendide canzoni” infarcite di “aguzzi ragionamenti”, Giorgio Gaber ha preso una cantonata quando ha detto all’inizio degli anni Novanta che in Italia si era comunisti anche perché avevamo avuto “il peggior partito socialista d’Europa”. Mughini ricorda così la stagione di “Mondoperaio”, quando, sotto la direzione di Federico Coen (1973-1985), la rivista avrebbe accolto, tra gli altri, gli interventi di Norberto Bobbio, Luciano Cafagna, Giuliano Amato, Giorgio Ruffolo, Gino Giugni, Massimo Luigi Salvadori, Luciano Pellicani e Stefano Rodotà: insomma, “un’armada culturale che seppe sparare i colpi di cannone più letali contro l’egemonia culturale comunista che a sinistra era straripante”. E gli intellettuali comunisti “digrignavano di denti” di fronte a una rivista che moltiplicava le vendite e dove “noi liberalsocialisti malmenavamo il loro amato Lenin”. Non solo, che Mughini riconosce grande dignità anche alle incursioni anticomuniste e agli “arrembaggi corsari” craxiani, come quando il Bettino sostenne la Biennale del Dissenso promossa da Carlo Ripa di Meana, biennale vista come fumo negli occhi dalla stampa comunista nostrana e sovietica.

Nobiltà Mughini riconosce però anche ai paria, a quel Giuseppe Niccolai, ad esempio, conosciuto negli anni Ottanta, che, nel 1972, da candidato missino aveva visto la mobilitazione di Lotta continua per impedirgli di tenere a Pisa un comizio elettorale. Fascista “di sinistra” e oppositore della linea di Almirante, Niccolai “sembrava emerso pulito pulito – osserva Mughini – dalle pagine di Romano Bilenchi e Ottone Rosai”. La curiosità per il ghetto neofascista avrebbe poi spinto Mughini a scrivere per la Rai lo speciale “Nero è bello”, che avrebbe esplorato e scandagliato il mondo della nuova destra di Marco Tarchi e Stenio Solinas.

Le “Memorie di un rinnegato” sono apparse sugli scaffali delle librerie lo scorso aprile. Mughini non ha fatto quindi in tempo a spendere qualche parola sull’ennesima gazzarra che l’antifascismo da sbadiglio, ottuso e salottiero, ha inscenato attorno a uno stand del Salone del libro di Torino nel maggio scorso.

Ci piace pensare, però, che si sarebbe precipitato agli scaffali di Altaforte per comprare una copia di “Céline contro Vailland”, che dà conto di una polemica politico-letteraria al calor bianco esplosa nell’immediato secondo dopoguerra tra il comunista e libertino Vailland e Céline, fascista ed antisemita tra i più virulenti ma forse, come ebbe a dire Charles Bukowski, “il più grande scrittore degli ultimi duemila anni”.

Una chicca del genere, un rinnegato della fatta di Mughini, non se la sarebbe certamente lasciata scappare.

Aggiornato il 03 giugno 2019 alle ore 11:31