Mentre in molti, troppi in questi giorni, s’improvvisano esperti e conoscitori di Dante Alighieri, la Rai fieramente ammannisce al popolo la nuova serie tv dedicata a Leonardo da Vinci. Ho visto la prima puntata, non guarderò la seconda. Lo confesso ero prevenuto, virtù che purtroppo non fa parte del mio bagaglio e che se invece possedessi mi eviterebbe tante delusioni, ma questa volta sì: ero prevenuto ed avevo, ho, ragione.

Il principe di Bisanzio, Antonio de Curtis in arte Totò, avrebbe definito e cassato il tutto con l’immarcescibile aggettivo di “ciofeca”. Sì, il Leonardo interpretato da Aidan Turner (che spero sia stato lautamente compensato per il suo inutile, evitabile, gratuito bacio alla francese con un altro uomo) è una solenne ciofeca. Gli sceneggiatori si devono essere realmente impegnati per superare il già esecrabile I Medici, sempre loro e di loro produzione, con un assoluto totale stravolgimento della vita del Vinciano, che quasi sempre tocca vertici di sublime comicità.

Tutto è ridicolo, impreciso, imperfetto, approssimativo e sbagliato in questa fiction. Già detto altrove che l’ottimo Turner non abbia nulla a che vedere nel suo aspetto fisico con Leonardo, le risate si sprecano nel vederlo ultratrentenne ancora alla bottega di Mastro Andrea del Verrocchio. Tra centinaia di candele accese che si sa, fanno atmosfera (come un tempo recitava lo slogan della Vecchia Romagna Etichetta Nera), Leonardo sgattaiola nello studio del Verrocchio e nottetempo gli modifica il progetto della macchina che gli consentirà di elevare la sfera (una palla gigantesca in questo caso non diversamente dal testo del serial) di rame dorato, fin sulla vetta della cupola del Brunelleschi. Diavolo d’un Leonardo, praticamente Arsène Lupin ma al contrario, un Robin Hood dell’arte, risolve un problema che nella realtà non si è mai posto. Del resto, quando uno è un genio, è un genio. Ma vogliamo parlare della modella Caterina da Cremona – perché poi da Cremona? Perché non da Mantova o da Forlì… indovinala grillo! – che cerca invano di sedurre l’artista, refrattario ad ogni sua avance? Però, sebbene respinta l’avvenente fanciulla, i due restano comunque amici. In fin dei conti siamo nella seconda metà del XV secolo e non più nel Medio Evo.

Abbiamo capito che se la produzione non strizza più che un occhio, anche qualche altra parte anatomica, al politicamente corretto gay-friendly, le cose non si possono fare, tanto più che pare non vi sia – strano ma vero – alcun personaggio di colore nella fiction, neanche quel Ludovico Sforza detto non a caso “Il Moro” per il colorito bruno abbronzato, olivastro, della propria pelle e per i capelli nero corvini, che si appalesa durante il vernissage nel quale il giovane Leonardo presenta alla città di Firenze il suo primo (parziale) capolavoro, ovvero quel Battesimo del Cristo che – dice la leggenda – manderà in pensione anticipata il povero Verrocchio, superato in bravura dal proprio allievo.

Dai flashback capiamo che Caterina anni dopo finirà misteriosamente assassinata e della sua morte verrà incolpato un Leonardo trasferitosi a Milano. Splendido, perché evidentemente nessuno degli sceneggiatori deve aver mai letto un solo rigo dei suoi diari nei parziali codici rimastici, in questo caso quello proprio dove egli scrive di “Caterina”. Ma è un thriller, è una fiction non una ricostruzione storicamente documentata, mi si obietterà. E allora? Questo giustifica un colossale cumulo piramidale di sesquipedali errori, volgari imprecisioni e grossolane mancanze?

Non mi interessa affatto se nella volontà degli studios c’era quella di creare un crime mistery, si poteva anche farlo, ma senza mistificare la realtà storica, insultando non solo Leonardo, la sua vita e le sue opere, ma anche tutti gli studiosi che sinceramente ad esse si sono dedicati. Quindi dicevamo che durante la vernice, il Moro ingaggia Leonardo facendoci capire perché poi l’azione si sposterà a Milano, in spregio ai fatti che videro appunto il bastardo di ser Piero presentarsi allo Sforza con un proprio curriculum poliedrico, per poi essere assunto come musico di corte.

Leonardo al tempo avrebbe dovuto avere meno di una ventina d’anni e Verrocchio il circa doppio, sui compagni erano nomi come Sandro Botticelli, Pietro Perugino e Domenico Ghirlandaio tanto per dirne alcuni a caso, era necessario inventarsi che fosse figlio di una strega di paese – lui il bastardo d’una serva – che lo condanna alla maledizione di distruggere tutto ciò che avrebbe amato.

“Ogni uomo uccide ciò che ama” è il verso tragico de La Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, non di Leonardo da Vinci e quindi anche questo vago riferimento all’omosessualità dell’artista poteva essere evitata. Continuiamo con le “sviste” però. Intanto Leonardo non è mai stato messo in prigione, né in compagnia di suoi amanti sodomiti né di altri, non è mai stato cacciato dalla bottega del Verrocchio e l’accusa anonima dalla quale viene prosciolto, insieme ad altri, è subito archiviata e resta a tutt’oggi un mistero, dovuto forse soltanto alle invidie politiche della città medicea.

Hanno trasformato così Leonardo in una figura mediocre, insicura, artatamente falsata per un pubblico che vuole restare ignorante e tronfio della propria ignoranza, incapace di andare oltre ad un Grande Fratello Vip o ai programmi pomeridiani di Barbara D’Urso. Però pare che il ministro della Cultura, Dario Franceschini, in un suo tweet abbia scritto: “Gli ascolti hanno premiato un’altra volta la scelta di unire storia, bellezza e Italia”. Non è un vanto, se lo lascio dire il ministro, che gli spettatori abbiano dedicato la loro attenzione a questa operazione. Tuttavia, ciò significa alcune cose importanti. Innanzitutto, esiste una grande “fame” di sapere nelle persone, che dovrebbe essere saziata con prodotti culturalmente validi e non con “cibo spazzatura” per la mente. Poi vuol dire che Leonardo da Vinci, come tanti altri grandi della nostra Storia dell’Arte, attrae sempre tutti e quindi come l’Arte “paghi”, sia perciò un motore che produce anche denaro, ricchezza, benessere e non una cosa secondaria e superflua così come vorrebbero farci credere ancor più in questa anno “pandemico” coloro che siedono a Montecitorio. Insomma, il popolo chiede brioche e il Governo dà non il pane, ma le gallette di riso che sembrano polistirolo espanso. Questo è il vanto di Dario Franceschini!

Errata l’ambientazione quattrocentesca nella quale Leonardo si muove, risibili i dialoghi, il modo di rapportarsi tra i personaggi, poveri i costumi, la rendono inferiore a una qualsiasi puntata di Big Bang Theory. Basterebbe pensare e sapere che il Vinciano, orgoglioso della propria bellezza, amava abbigliarsi in colori caldi di porpora e scarlatto da vero dandy ante litteram. Una nota che forse è sfuggita ai più, anche ai meno disattenti, è il nome dell’investigatore milanese che si occupa del “caso” Leonardo: Stefano Giraldi. Sì, proprio come l’ispettore Nico Giraldi interpretato in molti polizieschi degli anni Settanta e Ottanta da Tomas Milian.

Peccato manchi anche in questa crime story su Leonardo sempre quello straordinario caratterista che fu l’indimenticato Franco Lechner, meglio noto come Bombolo, tutta la fiction ne avrebbe tratto di certo giovamento, almeno avrebbe fatto ridere veramente e in maniera sana. E non con una smorfia d’infastidito disgusto.

(*) Tratto da Totalità.it

Aggiornato il 29 marzo 2021 alle ore 12:01