Gabriele D’annunzio, il trionfo della volontà di vivere

Personaggi della civiltà

Uomini come Gabriele D’Annunzio pongono, innanzi tutto, problemi morali. D’Annunzio è una personalità, un personaggio oltre che uno scrittore. Di solito gli artisti vivono nell’opera e non sempre hanno vita immediata potentemente vissuta, anzi è la vita non vissuta che viene risarcita, sovente, dall’opera. Inventiamo un’esistenza sognata perché viviamo una realtà qualsiasi, o viviamo di ripercussioni interiori. Non sempre ma spesso vi è questa alterazione, vita scarna, opera consistente. Certo, anche una vita scarna ha, in soggetti emotivi e fantasiosi, ripercussioni estreme, dicevo. Un Francesco Petrarca che vide, e null’altro, Laura ne fece eterno canto d’amore, lo stesso Dante che vide appena Beatrice.

I fatti contano secondo la ripercussione che suscitano, dicevo. Nel caso di D’Annunzio la “vita” fiotta a diluvio e con cento prese, eroico nella guerra, leggendario seduttore, oceanico scrittore, pluviale inventore di espressioni verbali di generazione personale o a saccheggio della lingua italiana di ogni epoca, ossessionato dal dire inconsueto, esaltante, e, sopra tutto, e realmente, al di là del bene e del male, piuttosto nel bello, vita ed arte che fossero. D’Annunzio imprime nel suo giorno energia senza remore, non lo frenano le disperatissime donne affascinate dal poeta e dal maschio, avvinte a Lui per qualche stagione lasciate da Lui dopo qualche stagione, indifferente se impazzivano o morivano, mentre Egli andava in altre passioni, forse non d’amore ma certo di non frenabile sensualità, così da giovane, così fino agli estremi giorni, di sicuro stimolato da qualche stupefacente che lo rianimava.

Una spietata voglio di conquista, di vittoria, di primato, di gloria e vanagloria lo sovraneggiava, si intendeva primo e voleva esserlo, e non si attardava in perplessità di morale comune, stabiliva il suo bene da sé per sé: esprimere, dominare, superarsi; ed il suo male: l’inerzia, il timore, il mediocrume. Eppure talvolta si ha l’impressione che tutto questo clangore sia un rumore potente per distrarsi dalla Morte come i guerrieri che strepitano nel combattere. Se nel rattristatissimo Pascoli vi è un Pascoli ardimentoso, volto alla gloria personale e nazionale, in D’Annunzio vi è solitudine e senso di morte, che Egli distrae con la forsennata attività.

Gabriele D’Annunzio visse al tempo del trionfo della borghesia, al cui orientamento utilitaristico contrappose l’aristocraticismo estetico ed anche morale o, meglio, immorale. Vivere, scrivere non per l’utile ma per l’affermazione vitale che aveva nella bellezza il vertice, al di sopra della morale consueta, ripeto. Fu un atteggiamento estremo in D’Annunzio ma propagato universalmente in coloro che temevano il dominio dell’utile sul bello. D’Annunzio scrisse oceanicamente, romanzi, novelle, teatro, e specialmente poesie. È colui che esprime, “insegna” questo ancoraggio all’arte e della vita all’arte, al bello, al sentire, al vivere supremamente prima che si affermino o contro l’affermazione delle due nuove classi, borghesia e proletariato, che D’Annunzio non disprezza come produttori ma li disprezzerebbe se facessero soltanto dell’utile il loro scopo. Lo scopo vero della vita per D’Annunzio è vivere senza risparmio e colpe ed esprimere ed amare la bellezza.

Della straripante operosità di D’Annunzio ci limitiamo a qualche esemplare poetico a segno dei suoi temi e dei suoi modi espressivi. I pastori è una breve composizione, assorta, nostalgia della terra natia, della gente della terra natia, di una costumanza della terra natia, testo sincero, sentito, spontaneo. Un Gabriele D’Annunzio non sovra eccitato, non esaltato, senza i consueti impulsi superomistici, piuttosto nostalgia e voglia di comunanza, di sé, uomo di mondo, con la sua gente, i pastori, comunanza magari fittizia e momentanea, però, dicevo, sentita. L’andare dei pastori a trovar lontana pastura, e il viaggio in mezzo alle terre, ai monti, le vallate, l’erba, gli alberi e infine la marina, e D’Annunzio si immagina dove sa di non essere rimpiangendo di non essere dove avrebbe voluto essere.

La pioggia nel pineto è tra le più note e celebrate composizioni di Gabriele D’Annunzio. Vi è “tutto” D’Annunzio, il bisogno di usare termini fuori schema, la musicalità secondo le situazioni espresse, e soprattutto il coinvolgimento corporeo nella Natura del corpo umano e dei sensi, uomo e donna,, e dei corpi umani tra corpi umani, uomo e donna. La pioggia si rende suono, ha una maniera di rendersi udibile a seconda degli alberi, delle foglie sui quali scroscia. Anche la natura animale ha suoni diversi, la cicala, la rana animano di suoni i luoghi. In questa pioggia ricevuta con piacere,, in questa pioggia accolta, festeggiandola, da colui che scrive e dalla donna che lo accompagna,, si immergono l’uomo e la donna per farsi loro stessi piante, erba, pioggia, ed avvincersi uomo e donna nella naturale vita sensoriale, nella terrestrità della vita, alla quale D’Annunzio fu devotissimo.

La morte del cervo è composizione del D’Annunzio superomistico al modo di D’Annunzio, l’esaltazione della lotta e della vittoria, la vittoria che supera la ferocia, la rende affermativa di potenza, e la nobilita. Il Centauro, uomo-bestia, appare e attende il Cervo, il Poeta-Spettatore sa che avverrà lotta, e avviene, infatti, Le grandi impalcature cornee del Cervo lacerano il Centauro che sanguina, è scontro a vita e morte, bave, bramiti, occhi infuocati, respiro allo spasimo ansante, scontri incerti, finché il Centauro sbrana la testa del Cervo divaricandone il cranio e spargendone le cervella, strappa la cornea impalcatura, la orna di foglie e se ne dà trofeo, felice e feroce di vittoria ridente, e sparisce. Il linguaggio è dannunziano, calcato su preziose, ricercate connotazioni verbali fuor di consuetudine.

Gabriele D’Annunzio nacque in Abruzzo, studiò a Firenze, esordì giovanissimo, con versi tesi al piacere di vivere i sensi, il che parve originale sembrando il poeta per solito uomo triste, questa disposizione al vivere in pieno, sensi, donne, lusso, imprese guerresche lo contraddistinguerà fino alla morte, circostanza davvero poco comune. Si fece propugnatore anche di una impresa militare che ebbe clamore, la conquista di Fiume, città rivendicata dall’Italia ma non concessa all’Italia dopo la fine della Prima Guerra Mondiale nella quale D’Annunzio ebbe gran parte, propugnando l’intervento contro la Germania e l’Austria. Nell’essere personaggio condottiero di modi d’essere dominò l’epoca, non soltanto in Italia. Altre imprese militari di D’Annunzio furono clamorose, in mare ed in cielo. Divenne lo scrittore principe del Fascismo, ma non fu né complice del nazismo né delle leggi razziali. E basti questo minimo cenno, per il personaggio più che per l’Autore.

Guido Gozzano, il non D’Annunzio

Per tutta la breve esistenza Guido Gozzano ebbe a compagnia la Morte. Non la dimentica, né la Morte lo dimentica. È dentro di Lui, impersonata, riconoscibile, è nel suo respiro affannato, nel sangue alla bocca, nel pallore del volto, nelle febbri continue, è la Sorella Tubercolosi, che gli sta sempre nel petto, una vera sorella carnale che gli copre la vista, e gli fa vedere soltanto il passato al di qua del presente. Gozzano non ha futuro, piuttosto passato, nostalgie, ricordi ironici e commossi del tempo che fu e che scompariranno come scomparirà Lui. Se nel futuro c’è la Morte, nel passato c’è il passato, il passato che viene rievocato come passato, il passare del passato, le signorine di buona famiglia, i salottini, le figure mitologiche che coprono le pareti, gli odori di antico, le villette recintate, e un garbo vecchio stile Piemontese, nella città più industriosa d’Italia, Torino, Gozzano conosce la nuova borghesia delle fabbriche e del profitto, ma non vi appartiene, non vi si immedesima, le case, gli edifici, le residenze dei piccoli centri, tra l’aristocratico ed il borghese lo seducono, lo seducono in quanto un mondo perduto.

Non si sente attrezzato per una società dove campeggia il conflitto economico crudo ed il primeggiare dell’operosità industriale. Non è il suo mondo. Ama quel mondo scomparso e che scomparirà, tutto qui, e ce lo fa rivivere ed amare come un vecchio che racconta la sua infanzia. Di Guido Gozzano annotiamo una sua lunga poesia, narrativa, lirica, a tratti deliberatamente corriva, a segno di un’esistenza banale, quella di Felicita, e dell’attrazione che Gozzano, intellettuale, sotto il segno dell’amoralità e della morte, del nichilismo, al dunque, sente per quella vita, di Felicita, “normale” e salva e sana nella normalità.

Signorina felicita ovvero la felicità: questa la più espressiva composizione di Guido Gozzano. Narrativa, lirica, volutamente prosaica, talvolta, dicevo. Contiene la disperazione di chi vorrebbe vivere e sa di dover presto morire, di chi vede, sente di poter essere felice, il modo, il luogo in cui essere felice, la persona con cui essere felice e sa di non poterlo essere, di non volerlo essere, ormai preda dell’annientamento. Felicita è una ingenua, pulita donna, quasi contadina, di buona famiglia all’antica, immune da pensieri doppi, torbidi, “cittadini”. Chi scrive, Gozzano, la conosce quando Egli è in vacanza, ed è attratto da questa zitellina dagli atti domestici, dallo sguardo sincero. Sente e comprende che la fanciulla vorrebbe gradirgli, e se ne sta a guardarla nei compimenti casalinghi da nulla ma “normali”, trasognato da quella normalità che a Lui manca, Lui uomo senza un credo, uomo sul precipizio della morte e nel guardarla immobilizza il Tempo, e vaneggia di sostare, rimanere in quel palazzo, con quella donna, e ritrovare un vivere comune, al di là degli affanni di gloria, dell’arte, della conoscenza.

Gozzano ama la sua terra, le vedute piemontesi, i salotti antichi, l’odore del passato, la vita fuori di città quasi dimentica della vita, un riparo, un esilio dalla tensioni urbane, dalle ambizioni, e dal male che gli rode i giorni, gli istanti. Ma sono fantasie. La Signorina Felicita resterà nel suo palazzo invecchiato, e forse invecchierà nel suo vecchio palazzo, continuerà a ripetere i giorni, vivrà inconsapevolmente, forse sposerà un uomo del luogo che la pretende, Guido Gozzano se ne andrà per il Mondo in compagnia della sua Morte e del Nulla. E la Felicità sparisce insieme alla Signorina Felicita.

Guido Gozzano nacque nel 1883 e morì nel 1916, piemontese, da Lui e da un altro poeta morto giovanissimo, Sergio Corazzini, viene a sorgere il Crepuscolarismo, una poetica intimistica e desolata. Gozzano vale in specie per il testo I colloqui, scrisse anche memorie di viaggi in Oriente: Verso la cuna del mondo.

Aggiornato il 20 ottobre 2021 alle ore 11:22